Duecento milioni di bambine e ragazze in almeno trenta Paesi
nel mondo, tra le 61.000 e le 80.000 giovani nel nostro Paese, hanno subìto
mutilazione genitale femminili. Numeri spaventosi che, come ogni diritto
negato, non fanno rumore. La mutilazione genitale femminile non è solo un'emerita porcheria, ma è anche un crimine contro l'umanità, un crimine contro cui lottare senza sosta affinché finalmente scompaia e la salute sessuale e riproduttiva e la vita stessa delle bambine e delle donne che la subiscono non continui a essere messa a rischio da un fenomeno che è solo figlio di ignoranza, intolleranza e machismo.
In occasione del 6 febbraio, Giornata Mondiale contro
le Mutilazioni Genitali Femminili regaliamo un estratto della storia di Nice,
keniana coraggiosa, raccolta dalla penna sensibile di Emanuela Zuccalà in
Donne che vorresti conoscere
Per spiegare la rivoluzione che dal villaggio
masai di Nomayianat sta investendo l’intera area, Nice torna indietro di quindici
anni, quando lei era una piccola orfana terrorizzata che sgattaiolava fuori da
casa dello zio per scomparire sotto il grande albero nell’attesa che le luci
del giorno e l’eccitazione per la cerimonia facessero dimenticare la sua
assenza nel conteggio delle bambine da “tagliare”. Per due volte s’è sottratta
in questo modo all’emuatare, il sanguinoso e ineluttabile rito di passaggio
all’età adulta per le femmine, guidata solo da un istinto infantile impossibile
da addomesticare: «Sapevo che avrei pianto e gridato, condannando la mia
famiglia alla vergogna. Durante la circoncisione, le bambine masai devono stare
zitte e ferme sulla pietra, senza muovere neppure gli occhi, altrimenti nessuno
le vorrà in spose. Per questo sarei 88 fuggita all’infinito. Ma lo zio insisteva, così mi decisi ad
affrontare mio nonno, il capofamiglia: “Non voglio essere tagliata – gli dissi
– ho solo otto anni e, prima di diventare donna, devo finire la scuola”. Lui
era sbalordito ma era un uomo buono: finì per cedere alla mia insistenza».
Oggi Nice Nailantei Leng’ete è una ventitreenne alta e sinuosa, prossima alla laurea in management sanitario e convinta che bastino un ideale e una testa dura per ribaltare il mondo. Lei c’è già riuscita qui, nella società profondamente patriarcale dei pastori masai sparsi per il paesaggio attorno alla cittadina di Loitokitok. Impegnata fin da adolescente con l’organizzazione sanitaria Amref («Ero l’unica ragazza del villaggio a saper leggere e scrivere: mi hanno scelta come mediatrice tra gli operatori e la comunità masai»), ha trovato la chiave dello sviluppo esorcizzando il suo spauracchio di bambina: il “taglio”. Perché «una ragazza circoncisa, anche se ha solo otto o dieci anni, è considerata una donna: deve sposarsi e fare figli. Abbandonerà la scuola e non saprà fare nulla se non badare alla casa e ai bambini, perpetuando l’inerzia della sua comunità». La ragazza istruita, invece, «porta più mucche», sta scritto sulla sua t-shirt: uno slogan semplice ed efficace che ha indotto a capitolare gli anziani masai esattamente come la piccola Nice, quindici anni fa, era riuscita a persuadere suo nonno.