martedì 16 dicembre 2008

Alla ricerca dell'Undicesimo Comandamento


A Once, Buenos Aires, con Francesca Bellino, autrice de "Il prefisso di Dio"

Da Salerno a Buenos Aires il passo non è breve ma Francesca Bellino – autrice per i tipi di Infinito edizioni del saggio “Il prefisso di Dio. Storie e labirinti di Once, Buenos Aires”, novembre 2008, pagg. 192, € 14,00 – ha trovato il modo più sorprendente per colmare un Oceano di distanza e portare per mano il lettore nel quartiere “fantasma” più famoso del mondo, quell’Once che ha dato i natali a tanti artisti e che è stato culla della cultura ebraica in Argentina.

Dall’intervista con la Bellino scaturisce una Buenos Aires inedita, sconosciuta ai più, priva di confini e ricca di contaminazioni culturali, una città colta e interiormente forte che gira attorno a un quartiere che non esiste, ma che tutti conoscono, che non sta sulle mappe ma che tutti cercano e in cui, in un modo o nell’altro, tutti prima o poi fanno ritorno.

El Once e il numero undici sono al centro della chiacchierata sul libro che, tra l’altro, è ulteriormente arricchito dalla prefazione del grande compositore portegno Luis Bacalov, secondo cui “un viaggio in compagnia de ‘Il Prefisso di Dio’ apre le porte meglio di qualunque guida turistica non solo a el Once e a Buenos Aires, perché Francesca Bellino racconta questi luoghi e storie con la partecipazione vitale e affettuosa di una scrittrice attenta e desiderosa di spaziare oltre e oltre e oltre ancora”.

D. Francesca, il tuo libro colpisce e impressiona favorevolmente fin dal titolo. Che cosa è – e quale è – però questo “Prefisso di Dio” di cui parli e come nasce questo titolo così particolare?
R. Il titolo nasce da una barzelletta che ironizza sulla convinzione degli argentini di godere della presenza costante di Dio in città. Dios attiende en Buenos Aires, dicono, per comunicare che Dio riceve nel suo ufficio a Buenos Aires e da lì fa i suoi miracoli. Quando si ha l’intenzione di telefonargli, infatti, si dice che non c’è bisogno di fare il prefisso perché per chiedere aiuto a Dio basta “una chiamata locale”! “Il prefisso di Dio” richiama, inoltre, il numero ricorrente in tutto il libro, l’11, o Once in spagnolo – nome del quartiere della città dove si svolge la storia – perchè il prefisso di Buenos Aires è 011. Il numero 11 è stato il punto di partenza del mio viaggio di conoscenza del quartiere, della città e della società argentina ed è poi diventato il filo conduttore di tutti gli avvenimenti narrati. La sorpresa per me è stata scoprire che la storia era “già scritta”: dovevo solo ricomporla mettendo insieme gli 11.

D. Nel tuo libro tutto ruota attorno al “quartiere fantasma” Once. Come definiresti Once e che rapporto c’è tra il quartiere, la gente che in esso vive e la città di Buenos Aires?
R. Once per me simboleggia l’Aleph di Borges «uno di quei punti dello spazio che contiene tutti i punti. Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». Anche se per molti porteños – così sono chiamati gli abitanti di Buenos Aires – Once è solo un luogo di passaggio per raggiungere altri posti perché lì si trova una grande stazione, per me questo quartiere invece ha rappresentato il centro del labirinto che può portare alla conoscenza di se stesso e degli altri perché vi confluisce tutto e la sua atmosfera stimola al confronto con i propri limiti e con le differenze delle culture di altre comunità. A Once coabitano pacificamente ebrei, boliviani, peruviani, coreani, oltre a immigrati di origine italiana e spagnola. Once è considerato un quartiere fantasma perché non compare sulle mappe della città. Una delle sfide che la protagonista compie in questo viaggio di ricerca, infatti, consiste proprio nel trovare i confini di un quartiere che non esiste – conosciuto ufficialmente con il nome di Balvanera – eppure scenario di importanti pagine di storia della città di Buenos Aires, dalla nascita del tango ai grandi flussi immigratori di fine ‘800, dalla concentrazione della prostituzione ai primi attentati terroristici in America Latina negli Anni ’90, all’ambasciata d’Israele e all’Amia, fino alla tragica morte di 194 ragazzi nella discoteca Cromañon nel 2004, fotografia dell’Argentina di oggi: corruzione, insicurezza e normalizzazione del pericolo.

D. Proviamo a fare una panoramica dei grandi nomi nati in questo quartiere. Once ha dato i natali ad alcuni tra i più grandi rappresentanti della cultura e delle arti non solo dell’intera Argentina ma di tutto il mondo. C’è una spiegazione, secondo te, o è solo un caso?
R. È vero, molte figure rappresentative dell’Argentina nel mondo sono nate o vissute a Once, come gli autori di tango Julio De Caro, José Razzano, Alberto Castillo, il maestro d’orchestra Daniel Barenboim, fondatore della West-Eastern Divan Orchestra che riunisce giovani musicisti d’Israele e dei Paesi arabi, lo scienziato, medico e fisiologo Bernardo Alberto Houssay, vincitore del Nobel per la medicina nel 1947. Vi è nato e ancora ci vive e ci lavora anche uno degli scrittori ebrei più apprezzati della nuova generazione, Marcelo Birmajer, e si racconta che lo stesso Carlos Gardel, il grande mito del tango, abbia trascorso la sua infanzia tra le strade di Once, come è successo anche al maestro Luis Bacalov, autore della prefazione de “Il prefisso di Dio”, nato in un quartiere vicino, Villa Crespo. Una spiegazione? Ho sempre pensato che niente succeda per caso, e che «ogni incontro casuale è appuntamento», come ci ricorda Borges. Probabilmente la convivenza di culture diverse e la possibilità di dialogare con il “diverso” aiutano a guardare il mondo in maniera più ampia e a sviluppare potenzialità, aspettative e creatività con maggior coraggio, libertà e determinazione.

D. La tua ricerca dell’Undicesimo Comandamento – uno degli assi portanti del tuo libro – alla fine ha dato frutti?
R. Tanti. Come dice uno dei personaggi del libro, «ogni passo è la meta». È più importante il cammino che si compie per raggiungere il traguardo o per trovare l’oggetto desiderato che l’arrivo o il ritrovamento in sé. Il libro, che fonde il linguaggio del saggio, del reportage e del romanzo, racconta i passi che compie la protagonista per imparare a confrontarsi, a dialogare e a rispettare l’Altro. Il mio augurio è che anche i lettori facciano lo stesso viaggio percorrendo le pagine del libro, ponendosi delle domande sulla propria vita. L’invito che mi piacerebbe arrivasse a chi leggerà “Il prefisso di Dio”, infatti, è quello di cercare, ognuno sulla sua strada, un Undicesimo Comandamento valido per tutte le religioni, una legge inedita da usare nelle nuove società plurali che, come in Italia, in tante nazioni stentano a funzionare.

D. Perché un turista dovrebbe visitare Once? Da quali suggestioni dovrebbe (o potrebbe) farsi guidare?
R. Once non è affatto un luogo turistico, non ci sono attrattive, è un luogo assolutamente anonimo, ma sicuramente può essere interessante passeggiare su una delle sue strade tematiche colme di prodotti variopinti e a buon prezzo, o attraversare plaza Miserere, dove tante persone si dimenano in attività di ogni tipo e osservare come a Buenos Aires sia assolutamente normale costruire una sinagoga a fianco di una chiesa cattolica gremita di fedeli in cerca di un miracolo e vedere persone di religioni diverse correre a compiere il proprio rito di preghiera senza inibizioni, vergogne o paure. Non c’è bisogno di andare a Once, però, per imparare ad ascoltare l’Altro e apprezzarne le differenze. Lo si può fare anche a Piazza Vittorio a Roma.

D. Come definiresti gli argentini?
R. Persone molto colte, forti e vitali con una grande capacità di reagire e rialzarsi dopo ogni tipo di caduta.

© Infinito edizioni 2008 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte

giovedì 20 novembre 2008

"Morte agli Italiani!", parla Enzo Barnabà


"In un secolo i meccanismi della xenofobia non sono molto cambiati, purtroppo"

“Il massacro di Aigues-Mortes, che il 17 agosto 1893 costò la vita a nove operai italiani linciati da una folla inferocita, rappresenta indubbiamente un episodio non secondario dei rapporti tra l'Italia e la Francia, sia al livello delle relazioni politico-diplomatiche tra i due Stati che a quello della storia delle classi subalterne dei due Paesi. Malgrado ciò, bisogna registrare il processo di rimozione verificatosi in Francia dove dei fatti – in pratica cancellati per un secolo dalla memoria collettiva nazionale – si è cominciato a parlare soltanto negli ultimi anni. In Italia, invece – grazie all'incidenza che il massacro ebbe sulla politica interna e in particolare sullo scontro tra le due linee politiche, rappresentate da Crispi e da Giolitti, che sul finire del secolo si contendevano la guida del Paese – l'episodio, peraltro più citato che conosciuto, continua a far parte del patrimonio storico post-risorgimentale”.

Questo l’incipit di Morte agli Italiani!, il nuovo sforzo saggistico dello storico e romanziere Enzo Barnabà, un uomo che ha scritto pagine importanti di letteratura sia in Italia sia in Francia e che con questo nuovo lavoro sull’eccidio di Aigues-Mortes (pubblicato nell’ottobre 2008 da Infinito edizioni) ha stracciato un velo di omertà e di vernice nera su uno degli eventi più tragici della fine del secolo XIX nei rapporti italo-francesi, che rischiò di far sprofondare in un conflitto i due Paesi.

Il libro di Barnabà, corredato da una certosina e rara ricostruzione iconografica degli eventi, può essere riassunto come un grande saggio storico e un notevole servizio alla verità, figlio come è di anni di ricerche e studi, oltre a essere ulteriormente impreziosito da una profonda e sentita prefazione del giornalista Gian Antonio Stella e da una introduzione inedita e postuma scritta dall’ex segretario del partito comunista italiano Alessandro Natta.

Con Barnabà, siciliano da anni residente a Ventimiglia e profondamente amato dai suoi ormai conterranei liguri, abbiamo parlato, discorrendo del libro, d’immigrazione, di politica e di storia, provando a mettere a confronto due secoli solo apparentemente così distanti. Il risultato di questa chiacchierata, per molti versi illuminante, è spiazzante: la durezza dei tempi odierni e la crescente xenofobia, in Italia, verso lo straniero ma, più in generale, verso colui che ci appare “diverso”, sembra perfettamente e drammaticamente ricalcare gli anni che portarono ad Aigues-Mortes e quelli successivi, che culminarono nel bagno di sangue della seconda guerra mondiale.

Enzo Barnabà, perchè questo libro?
Per due motivi. Intanto perché trovo intollerabile che frotte di turisti percorrano allegramente le strade di Aigues-Mortes senza essere sfiorati dal sospetto di trovarsi nei luoghi che furono teatro dello scatenarsi della più ignobile follia omicida. E inoltre perché il diffondersi della xenofobia è sotto gli occhi di tutti; non è male ricordare che siamo stati un popolo di emigrati che ha subito le ferite del razzismo.

L’eccidio di Aigues-Mortes e le sue cause sono da tempo rimossi dalla memoria nazionale. Puoi descrivere quei giorni drammatici e spiegarci il perché di questa rimozione?
La sadica violenza dell’eccidio colpì profondamente l’opinione pubblica italiana. Si sfiorò il rischio di passare dalla guerra doganale in corso tra i due Paesi a quella guerreggiata. Le manifestazioni spontanee che si registrarono in tutta la penisola (durissime quelle di Roma e di Napoli) furono cavalcate da Crispi e dalla Corte per fare cadere Giolitti e mettere in atto la svolta reazionaria, il colpo di stato larvato, da cui il Paese si libererà soltanto qualche anno dopo, con la cosiddetta crisi di fine secolo.
La memoria storica dei popoli è, ahimé, selettiva e non è piacevole ricordare che prima di diventare un Paese d’immigrazione siamo stati un Paese di emigrazione. Se comunque in Francia la rimozione è stata totale, direi che in Italia è stata parziale. In realtà, da noi l’eccidio è sempre più o meno stato citato dai manuali di storia, ma i fatti erano conosciuti poco e male. Ancora recentemente si è scritto di centinaia di morti. Le ricostruzioni sommarie e imprecise sono state la regola.

Che cosa ha significato allora l’eccidio e quali valori può ispirare all’Italia incattivita di oggi?
Per i socialisti italiani e francesi l’eccidio fu un campanello d’allarme che pose drammaticamente il problema dell’internazionalismo, che poi in soldoni era quello politico della difesa del proletariato in quanto tale (autoctono e immigrato che fosse) piuttosto che quella del solo proletariato nazionale.
La destra francese voleva estendere il protezionismo alla manodopera (“Se proteggiamo le nostre pecore, dobbiamo a maggior ragione proteggere il lavoro nazionale” sosteneva Barrès) mentre al padronato la concorrenza tra lavoratori faceva comodo. I meccanismi non sono molto cambiati, come si vede.

Al termine dell’ottima prefazione di Gian Antonio Stella, il giornalista si augura con forza che mai più abbiano a ripetersi episodi come quello di Aigues-Mortes. Tu temi che il germe della xenofobia possa, prima o poi, provocare nel nostro Paese un simile dramma?
Piccoli pogrom avvengono tutti i giorni nell’Italia di oggi. Se si leggono i giornali boulangisti francesi di 120 anni fa e quelli leghisti di oggi, si ritroveranno le stesse parole, gli stessi argomenti: è davvero sorprendente. La paura e il disprezzo del diverso non possono che alimentare, oggi come ieri, sadismo e violenza. Agli storici è ben noto come, nei periodi connotati dalla recessione, la xenofobia esca dallo stato di latenza. Oggi, il quadro economico alimenta la guerra tra i poveri e anche quel meccanismo psicologico che spinge a vedere nell’immigrato il piedistallo su cui montare per cercare di sfuggire all’emarginazione. Il quadro politico, poi, non è dei migliori: basta dare uno sguardo a quanto Stella dice di Berlusconi e del suo governo nella prefazione al saggio.

Da quanti anni studi i fatti di Aigues-Mortes e che cosa, in particolare, ti ha spinto a dedicare così ampia parte della tua vita a questo episodio avvenuto oltre un secolo fa?
Un pannello stradale che indicava "Aigues-Mortes" svolse negli Anni ‘70 la funzione della madeleine. Mi balzarono in mente l'aula del liceo, il professore di storia e il libro di testo che dedicava due righe alla strage. Volli saperne di più. Le pubblicazioni italiane erano con ogni evidenza imprecise e quelle francesi desolatamente reticenti. Insegnavo in un liceo di Nîmes, il capoluogo del dipartimento in cui si trova la cittadina in cui avvenne la strage e l'archivio dipartimentale si trovava a due passi. Dopo un paio di pomeriggi, aprivo il "dossier Aigues-Mortes", un centinaio di documenti che da quasi un secolo nessuno aveva più preso in mano. Fortuna o fiuto, non saprei dire.
Ho poi con una certa pignoleria continuato le ricerche. Per dieci anni ho utilizzato buona parte delle mie ferie per andare in giro tra archivi ed emeroteche: Parigi, Marsiglia, la stessa Aigues-Mortes, Angloulême (dove si svolse il processo farsa) e poi Roma, Milano, Torino (la maggioranza dei morti e dei feriti proveniva dal Piemonte), ecc. Mi ha aiutato il fatto di essere bilingue e biculturale. Abitualmente, lo storico italiano ha difficoltà a orientarsi con sicurezza tra i documenti francesi; e viceversa, naturalmente. Mi ha anche aiutato il fatto che la vicenda si sia svolta nel 1893, l'anno dei Fasci Siciliani, alla cui storia avevo già dedicato un libro.

C’è un politico italiano in particolare a cui consiglieresti la lettura del libro? Perché e quali effetti vorresti destare in lui?
A Gentilini, ma credo che non servirebbe a nulla. Lui e i suoi amici sono convinti che l’emigrazione italiana fosse diversa da quella straniera di oggi. Gli italiani, dicono, “portavano con loro duemila anni di civiltà”. Se sapesse qual era la percentuale di analfabeti! Credo che non riesca neppure a immaginarlo.

A chi dedicheresti idealmente il tuo sforzo saggistico?
A chi pensa che la fatica dello storico sia un atto di civismo.

martedì 4 novembre 2008

“RiScatto” per le vittime dello stupro


In un libro il progetto voluto da Olivia Molteni Piro e da Il Sole onlus in Etiopia


Olivia Molteni Piro è forza allo stato puro, vera dinamite.
Tutti la conoscono, a Como – dove è nata e vive – come ad Addis Abeba, e in tanti hanno imparato ad amarla. Madre adottiva, madre naturale e donna naturalmente slanciata verso il prossimo, un giorno di qualche anno fa ha scoperto che lo stupro in Etiopia, anche nelle famiglie, è una piaga sociale molto diffusa e assai poco punita.

Quel giorno la sua vita, già improntata al sostegno del prossimo in difficoltà, è cambiata del tutto e i viaggi, dapprima in Etiopia, poi in Burkina Faso, sono diventati una costante per lei e per la sua famiglia, forgiata nel granito esattamente come questa donna dagli occhi luminosi e sereni. Granito, sì, ma con sotto un enorme cuore che batte e pompa sangue.

Fondato Il Sole onlus, oggi Olivia si è “ritirata” a fare la nonna a tempo pieno, lasciando la sua “creatura” a un gruppo ben affiatato, guidato da Vittorio Villa.
Il progetto “Fiori che rinascono”, creato appositamente per portare aiuto e una speranza di futuro alle vittime della violenza sessuale ad Addis Abeba, è nel frattempo diventato un libro per i tipi di Infinito edizioni, “RiScatto”, il cui titolo ha appositamente una doppia lettura: atto finale di un corso di fotografia tenuto dal fotografo Gin Angri per aiutare le ragazze a superare il trauma; ma anche riscatto sociale e personale da una condizione di prostrazione interiore a una rinascita profonda, con la vita che, al termine del tunnel, torna a risplendere (come testimoniano anche gli scritti delle ragazze, pubblicati a corredo dell’importante apparato fotografico).

Uno splendido libro fotografico a colori, “RiScatto”, appositamente a basso prezzo di copertina, il cui scopo è finanziare il progetto “Fiori che rinascono”, sia in Etiopia sia nel nuovo Paese africano, il Burkina Faso, in cui Il Sole intende diventare operativo, sempre con lo scopo di opporsi alla pratica generalizzata e impunita dello stupro.

Con Olivia abbiamo fatto il punto della situazione sul progetto “Fiori che rinascono”, sul libro che da questo progetto è stato generato e sul nuovo impegno in Burkina Faso. Facendo una panoramica piuttosto rara su un argomento, lo stupro, di cui si parla sempre poco e poco volentieri, ma che purtroppo distrugge e condiziona la vita di milioni di bambine e donne non solo in Africa ma in tutto il pianeta.

Olivia, cominciamo dal titolo: che cosa rappresenta per te e per Il Sole e per le ragazze questo riscatto?
Il riscatto è una battaglia combattuta con ogni strumento a disposizione e senza ripensamenti o esitazioni per la conquista di uno status sociale perso e di una dignità distrutta dalla violenza sessuale. Comincia con la riappropriazione di una percezione positiva di sé e del proprio corpo, passa attraverso la ricostruzione di un’autostima e un’identità forti e stabili, e si conclude con il desiderio e la spinta motivata a essere reintegrati in un tessuto sociale che respinge, isola e stigmatizza.

Quali sono i contorni e le dimensioni dell’emergenza legata, in Etiopia, alla violenza sessuale contro i minori e perché Il Sole ha scelto di lavorare in questo Paese così difficile?
Le dimensioni dell’emergenza legata alla violenza sessuale in Etiopia non sono di facile definizione perché difficile è definire cosa si intenda per” violenza” in un contesto culturale che legittima abusi di ogni tipo su donne e bambini all’interno della famiglia stessa. Un contesto dove i matrimoni precoci (età media delle bambine 13 anni) avvengono di regola nella maggior parte delle regioni del Paese. Dove i matrimoni riparatori per rapimento e stupro sono il 50% nel sud del Paese. Dove il 74% delle donne ha subito la mutilazione dei genitali. Forse si può azzardare che due bambine su dieci sono vittime di stupro nel Paese. Ma ha veramente importanza quantificarne il numero?
Quando Il Sole iniziò a occuparsi del fenomeno, nel 2002, fu il primo a creare un network di organismi istituzionali, ong locali, strutture sanitarie, uffici legali e di polizia che lavorassero in modo coordinato per avere il polso della situazione e strutturare servizi a 360 gradi per le piccole vittime della violenza. E fu il primo a offrire, tramite una formazione specifica e mirata agli operatori del settore, gli strumenti che non esistevano per un approccio professionale con la riabilitazione psicologica e ad avviare momenti di incontro con le famiglie finalizzati a creare consapevolezza di un ruolo genitoriale di protezione e tutela che la cultura locale non prevede.
Proprio perché l’Etiopia era un Paese così difficile culturalmente, nel rapporto con le istituzioni, e per la limitata libertà di azione, lavorare per i bambini sessualmente abusati è stato un dovere dal quale Il Sole non ha potuto chiamarsi fuori. Ed il progetto “Fiori che rinascono” è stata la sfida più grande che l’associazione abbia mai affrontato.

Il recente “giro di vite” del governo di Addis Abeba ai danni delle organizzazioni umanitarie straniere quali conseguenze ha avuto sul progetto “Fiori che rinascono” e sulle ragazze?

In questo momento il progetto “Fiori che rinascono” è temporaneamente sospeso, in attesa di individuare una nuova modalità per continuare a implementarlo secondo gli standard previsti per il raggiungimento di obiettivi di base significativi. È ovvio che Il Sole non rinuncerà a renderlo nuovamente operativo nel momento in cui le condizioni saranno favorevoli alla “rinascita” del progetto. E le ragazze non sono state abbandonate a loro stesse perché continuano a usufruire di alcune forme di sostegno che ci permettono di tenerle monitorate e continuare il percorso con loro in attesa di tempi migliori.

Qual è la cosa che più ti è rimasta impressa ne rapporto con queste ragazze?
La contraddizione tra i loro sguardi che parlavano in silenzio di disperazione, rabbia e rassegnazione al tempo stesso e il bisogno, espresso in modo prepotente e quasi gridato, di individuare figure adulte delle quali fidarsi ancora. La richiesta di essere amate nel modo giusto, con rispetto, con attenzione per la loro unicità, con accettazione di quel vissuto che le aveva lacerate e offese.

Ora “Fiori che rinascono” si sposta da est a ovest del continente africano e approda nel Burkina Faso. Perché e con quali aspettative?
Perché la violenza sessuale su un minore è un fenomeno transnazionale che colpisce ovunque con la stessa ferocia, lasciando conseguenze devastanti. È dovere morale di tutti, in particolare di chi ha scelto di operare nel settore della tutela dei diritti dei bambini, affiancarsi a quelli di loro che maggiormente soffrono per la violazione di tali diritti. Etiopia, Burkina Faso, India… Ovunque anche un solo bambino diventi invisibile e muto, noi siamo chiamati a restituirgli identità e voce, usando gli strumenti di cui disponiamo e l’esperienza che ci siamo costruiti sul campo, anche pagando prezzi alti in termini di frustrazioni e sconfitte. Il Sole si aspetta di interloquire, anche in Burkina Faso, con le istituzioni e la società civile, per creare una rete di strutture nell’ambito delle quali i bambini vittime di violenza sessuale possano trovare accoglienza, ascolto e gli strumenti adeguati per diventare adulti socialmente attivi e capaci di costruire una società più accogliente e sicura per i loro bambini.

Quanto occorre investire per un progetto come “Fiori che rinascono” e come fa una piccola organizzazione umanitaria a trovare i fondi?
L’investimento su un progetto come “Fiori” non è affatto cosa facile. Non si tratta di “semplice” raccolta fondi. È qualcosa di più profondo, di più complesso. Si tratta di aggregare risorse di ogni genere, umane, materiali, logistiche e anche, successivamente, finanziarie.
L’impegno che il progetto “Fiori” richiede è totale, assoluto e totalizzante. Non è pensabile gestire il progetto con solo alcune delle risorse richieste. Servono tutte. Per cui non bastano fondi, ma serve un gruppo di persone legate da uno spirito di gruppo indissolubile, una volontà ben precisa, un’ideale comune in grado di mettere in relazione le diverse risorse necessarie e renderle le più produttive possibili. In questo senso il “costo” del progetto è elevato, ma i “benefici” (giusto per usare termini cari agli economisti) per chi partecipa attivamente in ogni singola fase del progetto sono sicuramente ben più cospicui.
In conclusione, il progetto “Fiori” è particolare non solo per la specificità del problema toccato, ma anche e soprattutto per la modalità corale di mettere insieme le risorse necessarie per trovare soluzioni adeguate a questo problema.

Se qualcuno volesse aiutarvi, in modi diversi, come potrebbe fare?
Pur riconoscendo che il sostegno finanziario è imprescindibile per la realizzazione di un progetto quale “Fiori che rinascono”, l’impegno di persone che abbiano una professionalità specifica nel campo del recupero del trauma indotto dalla violenza sessuale sui minori e che siano disponibili a collaborare con Il Sole su basi di volontariato è altrettanto importante e significativo. Per una piccola organizzazione umanitaria quale Il Sole, risorse umane motivate e che condividano gli ideali e le finalità dell’associazione facendosene portavoce, sono un patrimonio prezioso.

lunedì 20 ottobre 2008

La tolleranza della Sarajevo assediata



Intervista ad Alda Radaelli, autrice di Sabur. Racconti d’amore e di massacro

di Luca Leone

“In una città che ha perso 10.000 abitanti fatti a brandelli dalle granate, in cui ogni uomo ha vissuto un’esperienza di trincea tra le peggiori, che dovrebbe averlo reso duro e insensibile, per quel poliziotto sparare un colpo di pistola a un cane randagio morente è come sparare a sangue freddo a una persona che ti chiede aiuto… Quel cane non appartiene a nessuno ma nessuno si sente di abbandonarlo. Questo è il mistero di Sarajevo”. E un’ottima ragione per leggere Sabur. Racconti d’amore e di massacro (Infinito edizioni, 2008, pagg. 140, € 12,00), il bel libro di Alda Radaelli – autrice anche del testo citato – che si giova della prefazione della scrittrice Maria Pace Ottieri e della postfazione del foto reporter di guerra Mario Boccia, la cui visione della guerra e dell’assedio è diversa da quella esposta dalla Radaelli, e la cui testimonianza è stata accolta tra le pagine di “Sabur” proprio per dimostrare che è la civiltà dello scambio di opinioni a dover prevalere, anche e soprattutto tra coloro che vedono nelle cose sfumature diverse.

“Sabur” è un libro di guerra e di dolore ma anche d’amore e di civiltà, dalla prima all’ultima riga. L’autrice, che ha vissuto gli oltre 1.400 giorni del sanguinoso assedio (costato la vita a oltre 10.000 persone), si trovava sul posto per svolgere la sua missione di giornalista, esattamente come Boccia. Da quel giorno, la sua vita – la loro vita – non è stata più la stessa.

Alda Radaelli racconta in questa breve intervista la sua esperienza nella Sarajevo di allora e in quella di oggi, a partire dalla prima, inevitabile domanda.

Cominciamo dal titolo del libro: Sabur. Come spiegheresti ai lettori il significato di questa parola bosniaca, ma quasi arabo-spagnola nella fonetica, e che cosa rappresenta per te “Sabur”?

R - Partiamo da una premessa. Per me le radici dell’Europa sono tre e non due: quella ebraica, quella musulmana e quella cristiana. Ho appreso dalla cultura musulmana una parola che usano a Sarajevo, ma che proviene dall’impero ottomano, e che usano anche gli arabi (o forse l’hanno inventata loro ancora prima?). La propongo come invito a tutti noi. Ne trascrivo il significato dalla prima pagina del libro: “Sabur significa per il musulmano tolleranza, pazienza, autodisciplina. Sabur l’ha aiutato a sopravvivere a due genocidi di uguale matrice nell’arco di 50 anni Sabur non gli permette di covare vendetta. Ma non chiedete al musulmano di Bosnia di dimenticare.
Il primo genocidio è avvenuto durante la seconda guerra mondiale ed è descritto dallo storico Vladimir Dedjer nel libro Genocid nad muslimanima.

Hai vissuto un’esperienza tragica come l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, il più lungo che la storia bellica europea moderna e contemporanea abbia mai conosciuto. Ti sei sottoposta a questo assedio volontariamente, per volontà di testimoniare. Come descriveresti la tua esperienza a Sarajevo durante la guerra?
R - È una esperienza ragionata, senza nessun eroismo. Sapevo esattamente quello che rischiavo. All’inizio, pensavo che era importante testimoniare direttamente. In un secondo tempo ho capito che tutti a livello internazionale sapevano tutto e che la divisione della Bosnia era stata pianificata a tavolino per cancellare, là e altrove, ogni esempio di pacifica convivenza tra culture diverse. Ma a quel punto avevo assorbito dalla popolazione valori irrinunciabili non solo per sopravvivere, ma per vivere. E non c’era più ragione di andare via perché stavo bene lì. È quello che chiamo ancora oggi lo spirito di Sarajevo.

Lo rifaresti?
R - Certo. Mi ha cambiato la vita. Mi ha dato un sereno rapporto con il mondo che prima non conoscevo.

Oggi, quando torni a Sarajevo, con quali occhi la osservi e quale rapporto hai con le persone che hai conosciuto durante l’assedio?
R - Mi onoro di essere una delle poche persone che è stata accettata, perché a Sarajevo, come dice Mario Boccia nella postfazione, non è facile entrare. In una Bosnia ridotta a un quarto del suo territorio, che vive sotto la minaccia di scomparire dalla carta geografica, vivo meglio che in una Italia in cui mi riconosco sempre meno.

Molti sarajevesi e almeno il 50% dei bosniaci quotidianamente devono sostenere una dura lotta per mangiare e sopravvivere. Perché il dopoguerra bosniaco è stato ed è così lungo? Di chi è la colpa?

R - Di chi rifiuta di prendersela. D’altronde lo stesso avviene nel resto del mondo, dove il 4% della popolazione sfrutta a proprio beneficio tutte le ricchezze del pianeta, provocando livelli di sofferenza e disperazione indicibili.

Che cosa pensi di coloro che negano l’aggressione alla Bosnia Erzegovina e parlano di guerra fratricida, come se la guerra e il genocidio bosniaci non fossero stati qualcosa di programmato a tavolino?
R - Penso che non ce ne libereremo mai. Rispondo estendendo il concetto del grande filosofo Yeshayahou Leibowitz, recentemente scomparso, il quale dice che la shoah è un problema di chi l’ha voluta, non di chi l’ha subita.

E di fronte all’arroganza di un criminale di guerra come Radovan Karadzic, che cosa provi?
R - Nulla, fa il suo mestiere di criminale per cui è stato scelto per scatenare l’aggressione alla Bosnia. Il problema riguarda chi sta dalla sua parte. Ma questo vale non solo per la grande maggioranza dei serbi di Serbia e di Bosnia, ma per la grande maggioranza degli italiani, che, approvando o disapprovando Berlusconi, lo considerano comunque un esempio di successo, e quindi sotto sotto pensano più o meno coscientemente: “Perché no, se è vincente?”. Anche Karadzic è vincente, perché è stato chiaro dal primo giorno che il processo all’Aja non si farà mai.

La Bosnia tornerà mai più il “paradiso” multiculturale e di tolleranza che era una volta?
R - Non era un paradiso, ma era un esempio positivo da cui partire per consolidare le basi di una buona visione della vita, come c’era nell’antica Spagna per 700 anni, in Sicilia fino ai Normanni, come c’era in Libano prima degli anni Ottanta, come c’era in Iraq prima di Saddam. Come c’è nella Palestina del musicista Daniel Barenboim, del poeta Mahmud Darwish, di cui piangiamo la recente dolorosissima perdita di Mustapha Barghuti, di Edo Murtic, pittore e scultore di grande intensità. Egli ci ha lasciato prima di morire una serie di opere dedicate a Sarajevo ed esposte dentro lo scheletro imponente della biblioteca distrutta, che vive proprio perché masse di giovani di tutto il mondo la vengono a visitare, com’è successo quest’estate durante il Film Festival. Non chiediamoci se tutto ciò sia ancora recuperabile. Non è mai morto. E tante persone lo testimoniano in tutto il mondo. Sta a noi rapportarci a loro. Per me Sarajevo è tuttora questo.

venerdì 3 ottobre 2008

La cicogna che venne da Oriente


Luca Leone intervista Paolo Moretti, autore dell’ottimo La cicogna che sconfisse l’aviaria

È una cicogna che vola da Oriente a Occidente quella di cui racconta Paolo Moretti nel suo ottimo La cicogna che sconfisse l’aviaria (Infinito edizioni). Una cicogna che nel becco porta la piccola Mehala, con i suoi occhi carichi di luce e gioia di vivere, a due genitori italiani provati ma al contempo fortificati da un’attesa ben più lunga dei nove mesi biologici, un’attesa fatta sì, è vero, di scartoffie e dolore, ma anche carica di aspettative e sogni per una paternità (e una maternità) voluta con tutta la forza dell’amore.

Ed è proprio questo “La cicogna che sconfisse l’aviaria”, con prefazione di Marco Scarpati e postfazione di Stefano Zecchi: una meravigliosa storia d’amore, a lieto fine, con spunti, consigli e indicazioni fondamentali per chi voglia intraprendere l’irta ma non impossibile strada dell’adozione internazionale. Perché l’amore, alla fine, trionfa. Nonostante le difficoltà.

Abbiamo parlato di questa storia a lieto fine con Paolo Moretti, ottimo giornalista (La Provincia di Como), ormai esperto in adozioni internazionali e papà felice.

D. Paolo, l’idea che comunemente si ha della cicogna è un po’ diversa da quella che hai sperimentato tu. La tua è stata una cicogna venuta da Oriente, dopo qualche peripezia e una lunga attesa. Puoi raccontarci di questa cicogna e di quanto sia difficile l’adozione internazionale?
L’esperienza, la storia, l’abitudine ci racconta di cicogne che esauriscono il loro viaggio entro nove mesi al massimo. La nostra, come quella di tante altre decine di migliaia di famiglie, ci ha messo molto di più, ha affrontato un volo molto più turbolento, ma non per questo la planata è stata meno magica. Anzi. La nostra cicogna ci ha messo un anno e mezzo a sorvolare i cieli tra l’India e l’Italia. Tanto, mia moglie ed io, abbiamo atteso, con solo una fotografia da coccolare, di poter abbracciare nostra figlia. Sono tempi burocratici che non conoscono i ritmi e i bisogni del cuore. L’adozione internazionale, purtroppo, è anche questo. È lunghe attese. È incertezza. È paura di non farcela. Ma poi, alla fine, tutto quel fardello di ansie e dolore si è sciolto di fronte al sorriso pieno di vita di nostra figlia. E ciò che hai vissuto come un’ingiustizia, cambia luce all’improvviso: perché era nient’altro che la strada necessaria da percorrere per arrivare dove si sognava.

D. Che cosa occorre, a livello interiore, per essere pronti a fare il grande salto e aspirare a diventare genitori adottivi?
Fughiamo subito il campo da dubbi: i genitori adottivi non sono genitori di serie “B”, ma non sono neppure dei supereroi. Di sicuro esiste una consapevolezza, nel viaggio che accompagna l’adozione, che spesso manca quando si sta per diventare genitori biologici. E questo è normale perché fin da piccoli ci insegnano – è così quasi per tutti – che esiste un solo modo per diventare mamma o papà: procreare e partorire. La carenza di una cultura diffusa dell’adozione e dell’accoglienza fanno sì che, quando ci si trova a scegliere di imboccare quella via, si debba fare i conti con se stessi e con tutte quelle barriere psicologiche che decenni di cliché hanno inevitabilmente costruito. Io, personalmente, ho vissuto dapprima il trauma di scoprire di non poter avere figli biologici. Quindi il rifiuto di diventare padre. Poi la diffidenza nei confronti dell’adozione. Ma, passo dopo passo, ho affrontato i miei demoni. E quella che inizialmente ritenevo essere un’ingiustizia, ora la considero la mia più grande fortuna. Il grande salto, in ogni caso, mia moglie ed io lo abbiamo fatto quando abbiamo capito che procreare non vuol dire inseminare o partorire, quando abbiamo iniziato a realizzare che la pancia cresce nove mesi, il cuore tutta una vita. Ed è lì che si forma la vita. Che nascono i sentimenti. E che abbiamo trovato nostra figlia.

D. Credi che tutti coloro che scelgono, come pegno d’amore, l’adozione internazionale debbano confrontarsi con le difficoltà che hai raccontato o per alcuni, magari per certi “Vip”, le strade sono più brevi e sempre ben asfaltate?

Siamo portati a pensare che le difficoltà ci siano solo per impedirci di raggiungere un obiettivo, anziché viverle come un’occasione per crescere. Certo quando si è immersi, in quelle difficoltà, la possibilità di una scorciatoia appare come un miraggio. Fortunatamente in Italia, se non impossibile, è molto difficile poter contare su strade privilegiate. Ad alcuni sarà forse successo, ma gli ingranaggi italiani – di sicuro imperfetti – che regolano l’adozione internazionale rendono difficile poter trovare vie preferenziali. Non così, purtroppo, avviene all’estero. Le notizie sulle discutibili adozioni agevolate di vip quali Madonna non aiutano a far comprendere la realtà dell’adozione internazionale. Gli Usa, anche in questo campo, dettano legge in tutto il mondo. E accanto a meravigliosi esempi di adozioni difficili (molti bimbi con gravi problemi fisici trovano una mamma e un papà negli Stati Uniti) propongono una normativa e una consuetudine di rapporti con gli orfanotrofi che sembra privilegiare l’aspetto economico a quello del legittimo e inviolabile diritto di un bambino ad avere una famiglia.

D. Come descriveresti il tuo libro e perché è diverso dagli altri sull’argomento?
Lo descriverei come una chiacchierata tra amici con sottofondo musicale. Forse è diverso dagli altri perché non nasce per essere un libro. Piuttosto è una raccolta di emozioni, sensazioni, storie che volevo fissare su carta per non dimenticarle, certo, ma soprattutto per raccontarle a mia figlia quando sarà grande. Stefano Zecchi, nella sua postfazione, scrive che “sono i racconti, le storie sull’adozione che possono raggiungere il cuore dei problemi” e che “La cicogna che sconfisse l’aviaria” fa “pensare più con il cuore che con la testa”. Nel mio avvicinarmi in punta di piedi al mondo dell’adozione ho trovato molti libri tecnici sull’adozione, ma poche storie. Forse per questo il mio libro sembra diverso dagli altri.

D. Viviamo in un Paese sempre più alle prese con una grave crisi d’identità, d’etica e di rispetto per la diversità. Tua figlia ha la pelle scura. Che futuro credi avrà in un Paese che sembra sempre più assomigliare al Sudafrica dell’apartheid e in cui, pure, i bambini adottati nei Paesi più lontani sono ormai decine di migliaia?
I recenti fatti di cronaca, come l’omicidio di Abdul a Milano, mi hanno fornito non pochi pensieri al riguardo. Mi ha fatto sensazione sentire, dai telegiornali, titoli di questo tenore: “Ucciso un ragazzo nero, ma italiano”. Viviamo ancora in una società dov’è ancora indispensabile indossare un’etichetta d’origine controllata, per poter essere accettati e dove è necessario precisare che “era nero, certo. Ma non come tutti gli altri neri: lui era italiano”. Siamo un Paese in cui la diversità è ancora vissuta come una possibile fonte di problemi e paure piuttosto che come una ricchezza; dove anche nella morte c’è il bianco e il nero. Tutto questo, è chiaro, mi fa paura. Eppure sono un inguaribile romantico. I bambini amici di mia figlia, quando l’hanno incontrata la prima volta, all’inizio, curiosi, hanno comprensibilmente chiesto il perché di quella pelle colorata in modo diverso. Una volta che la spiegazione è stata loro fornita, con il sorriso sulle labbra, non hanno più visto davanti a loro una “bimba marroncina”, ma semplicemente una loro amica. Ho la speranza che ognuno di noi riscopra, in sé, quel saper essere così meravigliosamente bambini.

D. Sei tra i co-fondatori di un’associazione che porta lo stesso nome di tua figlia. Come e dove opera l’associazione e perché avete avvertito il bisogno di fondarne una?
In realtà l’Associazione Mehala, pur portando il nome di mia figlia, non è stata una mia idea. È nata dalla volontà di un gruppo di persone, che aveva incontrato casualmente Mehala in un viaggio in India, di realizzare progetti per poter davvero aiutare i piccoli orfani, quelli che io chiamo i bimbi “caduti dal nido”. La sede dell’Associazione è a Paderno d’Adda, in provincia di Lecco. Chiaramente ora ne faccio parte anch’io, perché tra gli obiettivi vi è anche quello di parlare di adozione e diffondere quella cultura dell’accoglienza di cui parlavo sopra e che ancora manca.

D. Un pensiero per chi, come te e tua moglie, si accinge ad avviare la procedura per l’adozione internazionale e una per chi, invece, l’ha già avviata e sta aspettando magari da un anno o due una risposta.
A chi sta pensando di addentrarsi nel mondo dell’adozione mi verrebbe da dire: buona strada ovunque questa vi porti e munitevi di scarpe buone e pazienti, non sempre sarà facile. A chi è in attesa dico quello che è stato detto a noi quando, dopo un anno, stavamo ancora coccolando una foto senza alcuna prospettiva di partenza: arrabbiatevi, piangete, maledite, ma non perdete mai la speranza e, soprattutto, siate sempre protagonisti del vostro tempo. Anche quando sembra sprecato: un giorno i vostri figli vi chiederanno cosa facevate nella loro attesa e voi avrete una sola possibilità, raccontargli la verità.

© Luca Leone/Infinito edizioni 2008 – Si consente l’uso di questo materiale citando la fonte.