martedì 18 giugno 2013

Bosnia, morire a tre mesi d'età per la cattiveria dei politici

Si chiamava Berina Hamidović e aveva tre mesi d’età. È morta in un ospedale di Belgrado, presso il quale i genitori, disperati, erano riusciti a farla ricoverare per cercare di farla operare e darle una chance di vita.
Berina era cittadina bosniaca erzegovese. Era nata con una malformazione alla trachea che i medici dell’ospedale di Sarajevo, presso il quale era stata ricoverata a lungo, non erano riusciti a ridurre. Di qui l’invito dei sanitari sarajevesi di portare all’estero la bimba, per cercare di operarla. L’ospedale più vicino e meglio attrezzato per l’intervento risultava essere una clinica di Belgrado. Ma Berina non poteva essere trasportata in Serbia poiché priva di documenti di riconoscimento, come tutti i bambini bosniaci erzegovesi nati dopo il 12 febbraio 2013. La ragione? I nazionalisti dei tre gruppi dominanti – serbo-bosniaci, musulmani bosniaci e croato-bosniaci – non riescono (o forse, meglio, non vogliono) mettersi d’accordo sulla nuova procedura per la registrazione all’anagrafe dei neonati. Per un problema di confini tra i distretti in cui è suddiviso il Paese, infatti, è bloccato il sistema di assegnazione del numero di riconoscimento composto da tredici cifre che deve essere attribuito a ogni neonato. E senza questo documento, i bambini nati dopo il 12 febbraio 2013 – giorno in cui il precedente sistema di attribuzione delle tredici cifre è stato abrogato – rimangono senza documenti, quindi non possono espatriare.

Il caso della piccola e povera Berina poteva essere l’occasione per i politici bosniaci di dimostrare quel minimo d’intelligenza, di buon senso, di umanità e di senso dello Stato che non hanno mai né avuto né dimostrato. Ma hanno voluto perdere, ancora una volta, l’occasione e caricarsi sulla coscienza la morte di una bambina.
Berina in effetti in ospedale a Belgrado c’è arrivata. Come irregolare. I genitori, disperati, sono riusciti a farla espatriare e a farla entrare in Serbia illegalmente. In Serbia però è esplosa la tragedia nella tragedia: la clinica in cui Berina è stata ricoverata ha chiesto un milione di euro alla famiglia Hamidović per sottoporla alle cure; i genitori non sono stati naturalmente in grado di pagare e il sistema sanitario bosniaco s’è rifiutato di coprire le spese. Anche perché la bambina era stata portata all’estero illegalmente e priva di numero di riconoscimento. Il classico serpente che si morde la cosa. Nel frattempo le condizioni di salute della piccola sono peggiorate e non ce l’ha più fatta a lottare.

La morte di Berina ha portato alcune migliaia di persone a protestare in strada a Sarajevo, sotto al nuovo edificio del Parlamento.  L’hanno chiamata “la protesta dei passeggini”, ma non è servita a cambiare le cose: i parlamentari bosniaci erzegovesi non fanno passi avanti e la nuova legge è lungi dall’essere approvata. Come tutto il resto. Anche perché i nazionalisti serbo-bosniaci di Milorad Dodik pretendono, per sbloccare la situazione, un codice di riconoscimento per i bambini neonati diverso da quello delle altre componenti nazionali. Per gli ultranazionalisti la differenziazione coatta e cieca tra gruppi nazionali deve cominciare dalla culla. L’obiettivo è sempre e solo quello: spaccare la Bosnia, farla scomparire. Se poi a morire devono essere non una ma mille Berina, ai politicanti locali la cosa non sembra interessare più di tanto. Forse è anche scontato, in terra di genocidio.