Il mio compito è quello di presentare il “Premio per la
Storia sociale” intitolato a Barbara Fabiani. Ma in primo luogo voglio
ringraziare la “Biblioteca di storia moderna e contemporanea” di Roma per
l’ospitalità che ci offre e per la collaborazione nell’organizzazione di questa
occasione.
Non è per me un ringraziamento formale; sono stato
contento di poter venire oggi in questa sede, perché Barbara passava in questa
Biblioteca molte ore e molte giornate per le sue ricerche storiche. A volte io
l’aspettavo giù in strada e a volte in macchina, parcheggiato vicino alla
Sinagoga, e quasi mai lei era puntuale, perché il suo rigore e la sua curiosità
le facevano perdere il senso del tempo quando s’immergeva nello studio della
sua città e dei suoi abitanti.
Il Premio nasce lo stesso giorno della sua perdita. Lo
propose Luca Leone, che è stato amico prima ancora di diventare editore, a
Laura Clarke e a me, che lo accogliemmo con entusiasmo, e così fecero anche gli
altri amici ai quali parlammo e i tanti che hanno voluto col patrocinio sostenere
questa nostra iniziativa.
La condividemmo con entusiasmo per la vera amicizia che ha legato ognuno a
Barbara.
E me per vent’anni di amore.
Per questo mio solo merito mi hanno voluto presidente
della giuria; ma proprio perché consapevole di questo solo merito, io mi sono
voluto presidente senza diritto di voto, per eliminare il rischio e anche solo
il sospetto che ragioni personali influenzassero la decisione finale della
giuria.
Sottolineo questo aspetto per riconoscere valore ai
vincitori del Premio: il loro lavoro è stato vagliato in modo assolutamente
neutro rispetto alle ragioni che hanno fatto istituire il Premio.
Perché il Premio non è mai stato, né potrebbe esserlo
simulacro o surrogato della presenza di Barbara.
Irreparabile la perdita, insostituibile la presenza che
ancora sentiamo dentro di noi.
Il Premio lo abbiamo voluto per continuare un interesse
(la storia sociale e le relazioni tra persone) e una modalità di comunicazione
(la divulgazione e l’integrazione tra vari strumenti) che erano di Barbara, ma
che hanno per noi un valore proprio e che abbiamo ritenuto giusto continuare a
sostenere.
È lo stesso spirito con il quale Maria Rosa Patti e
Ilenia Gradante continuano e sviluppano l’attività di Vita Romana, associazione
culturale fondata da Barbara e che legge i luoghi e l’arte, evidenziando la
vita delle persone che ne sono stati autori, fruitori, soggetti o che, più
semplicemente ne sono entrati in contatto durante la loro vita.
Abbiamo voluto garantire questa integrazione tra
contenuto e metodo anche nella composizione della giuria, che voglio ricordare:
Laura Clarke, giornalista; Italo Sarcone, latinista; Alessandra Gissi, docente
e componente della società italiana delle storiche; Luca Leone, scrittore,
editore e giornalista; Bruno Mazzara, docente di psicologia sociale; Alessandra
Montrucchio, scrittrice e giornalista; Claudia Pillonca, insegnante; Gianni
Farinetti, scrittore.
Una diversità di approcci e di valutazione dei lavori in
concorso che hanno garantito la scelta di quelli che con qualità rispettassero
i canoni del bando.
Anche questo lo sottolineo per valorizzare i lavori che
hanno vinto.
Come ho detto, la storia, l’arte, la cronaca lette
attraverso la vita delle persone e le loro relazioni sono stati al centro del
modo di essere di Barbara, nella sua attività di giornalista e di studiosa,
come dimostra la sua esperienza professionale e culturale, sempre attenta alle
ragioni e alla dignità dei deboli, in qualunque parte del mondo vivessero e in
qualunque epoca fossero vissuti, con un’attenzione particolare alle donne e ai
bambini.
Gli ambiti del suo interesse sono stati tanti e tali in
un continuo rimando tra le parole per descriverli e le immagini per
raffigurarli e condensarne le emozioni.
È così che nasce l’articolazione del Premio nelle due
sezioni “Saggistica” e “Immagini”; che nel secondo bando diventano “Parole” e
“Immagini”, non per gusto della simmetria ma per aumentare ancora le possibili
forme di espressione, al teatro, la poesia, il reportage giornalistico, il
racconto.
Voglio anche dire che la sezione “Immagini” non è meno
importante dell’altra. Perché un’immagine può essere essa stessa una storia,
come dimostra la foto di Maila Iacovelli e il suo progetto fotografico del
quale la foto vincitrice fa parte.
D’altra parte, il ricorso all’immagine per Barbara era
naturale e quotidiano.
Voglio ricordare, come episodio quasi da “Lessico
famigliare”, la sua abitudine di redigere la lista della spesa non con i nomi
ma con i disegni delle cose da comprare; se andavo a fare la spesa io non
sempre riuscivo a distinguere le patate dai pomodori e se glielo dicevo Barbara
mi faceva notare i dettagli del disegno che non mi avrebbero potuto far
sbagliare.
A sua volta, il lavoro di Natalina Lodato, attraverso la
storia di “Due+”, si dedica a un altro tema caro a Barbara, quello
dell’evoluzione del ruolo della donna in condizione di piena dignità.
Anche a questo proposito voglio riportare un fatto di cui
non ho mai parlato.
Quando Barbara stava già male, ma la speranza ancora non
ci aveva abbandonato, scrisse una lettera a tutti gli organi d’informazione,
per stigmatizzare l’immagine della donna che era ritratta dalla pubblicità, che
solo per le donne trasforma ogni naturale aspetto della quotidianità in
debolezza, inadeguatezza, carenza; al contrario della pubblicità destinata agli
uomini, nella quale il prodotto enfatizza una qualità già naturalmente
posseduta.
Mi sono accorto solo oggi che l’anno di fondazione di “Due+”
e lo stesso in cui è nata Barbara, che quindi non ha vissuto a pieno
quell’esperienza.
Io che ho qualche anno in più ricordo invece come fosse
difficile anche negli ambienti progressisti avere il rispetto pieno della
donna… Come quella volta che, in occasione del referendum per l’aborto, nel
pieno del dibattito se la scelta finale spettasse alla donna o al medico, un
compagno del PCI disse che spettava al consiglio di quartiere: una
collettivizzazione dell’emotività, della dignità e della libertà della donna oltre che del suo
corpo che la dice lunga sulla strada che bisognava percorrere.
E che ancora bisogna percorrere, se dobbiamo ancora fare
i conti con un’autistica e spesso criminale autoreferenzialità del ruolo
maschile vissuto come status di possesso e non come relazione arricchente.
Credo che in maniera diversa i lavori che hanno vinto il
Premio ci raccontino questo e che ce lo raccontino bene perché sono opera di
due giovani donne.
Anche di questo siamo contenti.
E anche Barbara lo è.