Settant’anni fa, a Nola, in Campania, un tenente italiano
trentenne e nove altri ufficiali italiani venivano buttati contro il muro della
loro stessa caserma dai reparti della Wermacht nazista di stanza nella zona e
venivano fucilati davanti ai loro commilitoni attoniti, disarmati e
inginocchiati a terra e davanti a tutta la popolazione civile. Dieci a uno era
il rapporto stabilito dai Nazisti: per ogni tedesco ucciso, andavano ammazzati
dieci italiani. Fu, quella di Nola, la prima strage, il primo eccidio
consumatosi in Italia ad opera dei tedeschi non più alleati ma invasori,
all’indomani dall’armistizio dell’8 settembre 1943 e di una scaramuccia costata
la vita a un ufficiale degli ex alleati di Berlino. Alberto Pesce, tenente
dell’esercito italiano, e i suoi nove colleghi furono assassinati a sangue
freddo l’11 settembre, giorno che poi la storia avrebbe immortalato,
pietrificato, come data tremenda tra le più terribili, basti pensare al golpe
in Cile del 1973 e all’attentato alle Torri Gemelle di New York del 2001.
Il tenente Alberto Pesce, architetto torinese, era il
padre di Alberto Liguoro, autore del bellissimo “Nola,cronaca dall’eccidio” (Infinito edizioni, 2013, 160 pagine, € 14.00).
L’Alberto scrittore nacque pochi mesi dopo la morte del padre e rimase poco
dopo orfano anche della mamma, spentasi a causa di complicazioni post-parto in
quell’Italia squassata dai bombardamenti e abbandonata dalla fuga vergognosa
dei Reali. In questa intervista Alberto Liguoro ci racconta la sua vicenda
umana, la scoperta del suo essere involontariamente figlio di un Eroe della
Patria (o, forse meglio, di una vittima della Patria e per la Patria), il difficile
percorso personale che l’ha portato, ormai grande d’età, a confrontarsi con la
sua storia e il suo passato, che sono la nostra storia, il nostro passato, di
cui siamo troppo spesso ignari e disinteressati. Mentre è proprio negli Alberto
Pesce e negli Alberto Liguoro che dovremmo trovare la forza per guardare con
rinnovata fiducia e ottimismo al futuro che ci aspetta, alla vita che abbiamo
ancora da vivere e da spendere per buone cause che lo meritino.
Alberto, che cosa
provi dentro di te quando, magari in televisione, senti parlare con tanta
semplicità, magari persino banalità, di eccidi e stragi?
Istintivamente, un senso di angoscia e di pietà,
soprattutto per i bambini, sia per quelli che ascoltano certi discorsi sia per
coloro che invece subiscono la violenza. Meditatamente, provo frustrazione e
rabbia, perché fatti di questo genere fanno ritornare indietro, fanno
regredire, e più ce ne sono, più si torna indietro, altro che futuro!
E la parola Nola, il
luogo stesso, quali sentimenti evocano in te?
Nola? Nola non è stata niente per me, per tanti anni, anzi
un luogo da tenere lontano dalla mente il più possibile; una specie di noia,
una seccatura in definitiva da dimenticare per sempre, magari con un colpo di
bacchetta magica. Oggi è un luogo della memoria e di persone dotate di
misericordia e di dedizione più di quanto io abbia mai avuto; in mezzo, un
vuoto pneumatico riempito di cose vaghe. Ma soprattutto, ora la sento come la
terra di mio padre; dove mio padre se ne è andato, ma non mi ha lasciato. Anzi
ha lasciato a me il compito di continuare la nostra vita, un briciolo di vita,
ma pur sempre la nostra vita, su questa Terra.
Come e quando scopristi d’essere
figlio di una delle povere vittime dell’eccidio di Nola?
Scoprii di essere un orfano, diciamo “nient’altro che un
orfano di guerra”, credo in prima media, mi pare di ricordare, a (involontaria)
opera (distruttiva) di qualcuno dei “soliti” compagni di scuola, che era come
se mi volesse “aprire gli occhi”. Qui probabilmente sbagliarono i miei genitori
adottivi, ma erano anche altri tempi (del resto ancora oggi nessuno ha
definitivamente conclamato come ci si debba comportare in questi casi), a voler
posticipare a quando fossi più maturo (non nascondere) “la notizia”, divenuta,
in tal modo, grande e grave più di quanto non lo fosse di per sé.
Come ci rimasero quando, al liceo, se non sbaglio, me lo
dissero solennemente e io non seppi nascondere che già lo sapevo!
Quale fu la tua reazione a quella
scoperta?
Di vergogna e di oblio; ero un orfano di guerra, o meglio
di un crimine di guerra, in un mondo di non orfani; un perdente in un mondo di
vincenti. Ma nelle occasioni in cui potevo nascondermi, nei discorsi generici,
nei miei temi, trovavo spunto per parlarne senza che nessuno lo sapesse. Ci fu
un mio tema su qualcosa come “i figli di nessuno” divenuto famoso nell’istituto
scolastico che frequentavo, dove parlavo a qualcuno, ma non ero io in prima
persona, era un altro.
Dentro di te, a un certo punto,
che cosa è cambiato? E perché?
È cambiato tutto. A un certo punto, da che, secondo il
naturale scorrere del tempo della mia vita, ero un normale figlio di famiglia,
sono diventato un orfano adottato; un “eroe” anch’io? Bisogna starci dentro per
capire quanto può essere fastidiosa questa parola quando si è giovani.
Esiste anche una
percezione fisica di come cambia la propria vita, in questi casi?.
Ogni giorno la mia vita ricominciava daccapo, con
l’intento di continuare da dove era iniziata ma, immancabilmente, il giorno
dopo ricominciava nuovamente daccapo. Facevo tabula rasa del tempo precedente.
C’era la famosa frase di “Via col vento”, che avrò visto cinque o sei volte,
con i miei genitori adottivi, quando ero proprio bambino, un film che ritornava
circa una volta all’anno al cinema di Maddaloni, il paese dove ho vissuto gran
parte della mia vita, e tutti correvano a rivederlo come se fosse la prima
volta: “Domani è un altro giorno”. Più tardi la sentii ripetere spesso, come
uno slogan, da un mio amico (uno di quelli che mi aveva “avvisato”), e divenne
anche, in un certo senso, il mio slogan. “Fuga dalla realtà”: possiamo chiamare
così questa perversione? La mia fuga durò più di quanto non si immagini.
Fuggimmo dal mondo, un giorno, io e la ragazza che sarebbe diventata poi mia
moglie. Anche quello fu l’inizio di una nuova vita. Qualche mese dopo ci
sposammo, io avevo 21 anni, lei 17; alcuni mesi dopo mi laureai in
Giurisprudenza, l’anno successivo vinsi il concorso in magistratura. Insieme a
un altro collega, siamo stati i più giovani magistrati in Italia; e anche qui
iniziò, per me, un’altra vita, come in una bolla di sapone.
Hai mai pensato a
come avrebbe potuto essere la tua vita con i tuoi genitori biologici, se tuo
padre non fosse stato ucciso dai nazisti a Nola e tua madre non fosse stata
portata via da una complicazione post-parto alla tua nascita?
Beh… Fosse sopravvissuta almeno mia madre, in qualche modo
la barca, quasi del tutto appoggiata su un fianco, avrebbe continuato a
navigare, ma… morta a 26 anni mia madre, affondata la barca! E la mia vita è
continuata su un’altra barca.
Che cosa avrei fatto? Chi sa… credo che ben difficilmente
avrei studiato “giurisprudenza”. I progetti, che conservo gelosamente, di mio
padre che era architetto, e che sono stati stroncati con un sol colpo di falce
a trent’anni, da una raffica di mitra; i suoi disegni che sono tanti, molti
rocambolescamente ritrovati grazie a mio cugino Pier Giacomo, e sono
bellissimi, da allestirci una mostra, mi fanno pensare che avrei probabilmente
continuato la sua opera, ingegneria, architettura, istituto artistico, magari
(e dire che non so disegnare un albero o una casa); i miei nonni paterni erano
letterati, scrivevano, mia nonna anche novelle, romanzi: avrei fatto lo
scrittore, magari il giornalista (il poeta no: essere un poeta non è
un’attività secondo me, né un mestiere; uno stato d’animo, piuttosto, per
fortuna molto diffuso); forse l’impiegato comunale, come un mio zio, o della
Fiat, come un altro mio zio; l’uomo di legge, difficile… “Non si usava al nord”,
all’epoca. E così, da possibile uomo di scienze o da probabile stipendiato
torinese, mi sono ritrovato, alla fine, uomo di legge campano. Più cambiata la
vita di così!
Hai sofferto molto
raccogliendo le informazioni che ti hanno permesso di scrivere questo
bellissimo libro? E come hai fatto a elaborare la sofferenza e a trovare la
forza per continuare, passo dopo passo?
Ci ho messo cinquant’anni, diciamo da quando, testardo
come sempre, ho deciso di mettermi a scrivere sul serio. Ma ho scritto di tante
cose, tranne che di questo. Ho scritto anche dell’impossibilità, poi rivelatasi
infondata, di scrivere di questo, in articoli, poesie, lettere a qualcuno,
anche a qualcuno a me molto caro, nel quale ho ritrovato un po’ di me stesso,
bambino, poi adolescente. Quando poi diventi uomo, tutti i gatti diventano
bigi. Guarda, ho speso più tempo a non raccogliere informazioni; più tempo a non
elaborare. Ho molto rifiutato, ma non faticato. Quando poi mi sono sentito
pronto e nella mia testa, come in un sistema planetario, come anche in altri
miei scritti, ma qui di più, si è delineato il complesso delle orbite dei corpi
celesti intorno ad altri, delle rotazioni e delle rivoluzioni, non ho sentito
più alcuna fatica. Voglia, voglia soprattutto di descrivere, di immaginare, di
sognare, forse, e scorgere, tra gli incubi, le gioie della vita. Tutto questo
ho sentito, ma nessuna fatica. Un miracolo forse? È forse perché lassù qualcuno
mi ama? Facilità, allineamento, disallineamento, la stretta trafila burocratica
non mi interessa, ma la storia sì, come me l’hanno insegnata a scuola i miei
bravi maestri, come senso, come significato, come esperienza e indicazione. Nessuna
fatica, guarda; mi costa più fatica sostenere questa conversazione. E così è
venuto fuori il libro che tu affettuosamente definisci “bellissimo”.
Perché gli italiani
hanno sostanzialmente rimosso episodi come quello di Nola, ma anche come quelli
che hanno visto il perpetrarsi di tante stragi nazi-fasciste ai danni della
popolazione civile tra il 1943 e il 1945?
Non solo gli Italiani, una volta tanto, va detto. Nel
costruire il futuro, sempre che davvero possiamo aspirare a costruire un futuro
(io ci credo), non si può non tenere conto del lato perverso dell’uomo; una
componente inquietante. Prendiamo, ad esempio, quanto accadde in Cile l’11
settembre del 1973, una delle date che, nell’allineamento cosmico del tempo,
come dei Pianeti, considero – insieme all’11 settembre 1800, decapitazione a
Napoli di Luisa Sanfelice; l’11 settembre 1943, eccidio di Nola; e l’11
settembre 2001, attentati con dirottamenti aerei negli Stati Uniti – è una data
simbolo del Male sulla Terra, per i lutti, le violenze e le ingiustizie che
comportarono 17 anni di dittatura militare. Oltre 30.000 morti e 600 persone
torturate costò l’ascesa al potere di Augusto Pinochet, col determinante aiuto
degli Stati Uniti. Ora si ricorda che il regime di Pinochet, con la politica
fortemente liberista dei suoi Chicago boys, e il sostegno economico e
commerciale degli Usa, determinò per diversi anni dopo il ripristino della
democrazia, quello che fu definito “il miracolo del Cile”: per un certo
periodo, la nazione economicamente e strutturalmente più forte dell’America del
Sud. Ma chi mantiene il ricordo, oltre agli stretti familiari, parenti, qualche
amico, fin quando il tempo non ne spazzerà via i residui, delle 37.000 persone
assoggettate a torture e violenze, recluse nelle carceri clandestine sulle navi
e negli stadi? Dei 2.270 desaparecidos? Delle diffuse prevaricazioni e
ingiustizie non statisticamente valutabili? Questo è il prezzo di lavastoviglie
e frigoriferi, delle limousine, della prosperità di bottegai e produttori?
Dopo la fine della guerra persa, negli anni ‘50, ci fu il
boom economico in Italia, il consumismo; questo si preferisce ricordare. E il
socialismo reale in Unione Sovietica, dopo settant’anni di indiscussa egemonia,
cadde forse per una questione ideologica? La sciagurata, improvvida
applicazione dittatoriale di un’ideologia ancora acerba? I gulag? Macché! Per
l’obsolescenza degli impianti industriali, l’ondata oceanica di “capitalismo”
che premeva alle porte. E così, dalla Cecenia alla guerra nei Balcani, tanto
per rimanere nei dintorni, gli esempi si sprecano. Ma non bisogna perdere la
determinazione e la speranza, nel ricordare e nel cercare altre strade.
In questo processo
di rimozione è più colpevole la scuola, la politica o la ricerca storica?
Beh… questo mi ricorda un po’ il… nacque prima l’uovo o la
gallina? Ma, senza tergiversare, e per intenderci su quello di cui stiamo
parlando, sul senso comune delle cose, la politica certamente. Non ho
esitazioni nel rispondere; la politica determina come deve essere la scuola, la
ricerca storica e persino la semplice informazione, anche se è naturale che una
buona scuola darebbe vita a buona politica e buona ricerca storica. La politica
italiana è degradata, retrograda, tendenzialmente qualunquista? Così conforma
il Paese. Come possiamo, quindi, pretendere che a scuola si studino, con
attenzione e approfondimento, gli episodi più drammatici e inquietanti, raccapriccianti
a volte, della seconda guerra mondiale? Fatte salve le provvidenziali
eccezioni, fortunatamente. Che la ricerca storica sia incoraggiata nel senso
della realtà dei fatti e non dei giochi di potere? Come possiamo pretendere
che, nei ministeri, si faccia luce sulle carte e i faldoni sepolti in polverosi
stanzoni e umidi scantinati, anziché promuovere la logica del “mettiamoci una
pietra sopra”? Ci vorrebbe una ribellione, una rivoluzione! Tu che dici?
Alberto, qualcuno ti ha mai
chiesto scusa per quello che ti è stato imposto dalla vita?
Assolutamente.
Ma non credo al bell’andazzo di un cazzotto in bocca e poi le scuse. Non voglio
nessuna scusa; voglio che le cose vadano bene.
E quando incontri un tedesco, che
cosa gli vorresti dire?
Beh, proprio niente. Ci ho lavorato anche, come avvocato,
con i “Deutsche”; oculatissimi, parsimoniosi, diffidenti, ma una volta
raggiunto l’accordo, pagano precisamente il dovuto nell’arco di una settimana,
non di un decennio, come fanno invece gli italiani. Non chiedo vendetta, mai,
e, ormai, neanche più giustizia; avrei dovuto farlo quando mi occupavo, invece,
di altro. Ora chiedo solo futuro; un futuro libero e migliore per tutti, ma più
di ogni altra cosa, per coloro che vengono dopo di noi, e quindi chiedo e voglio
Memoria. Non c’è futuro senza memoria, senza storia vera. Se io racconto un
fatto, vorrei essere ascoltato da tutti, tedeschi o non tedeschi, eventualmente
confutato o controbattuto; più il fatto è grave, maggiore dovrebbe essere
l’attenzione. Tutto qui.
Perché la tua
famiglia di origine accettò che un’altra famiglia ti adottasse?
Non me lo sono mai veramente chiesto. Andava
anche questo nel tran tran, anzi nel tram dei tabù, con il quale percorrevo
allegramente e incoscientemente la mia vita. Nel momento in cui ho cominciato a
chiedermelo, e quindi a chiederlo in giro, molti che potevano darmi risposte
interessanti erano morti; da parte dei presenti ho sentito storie ingarbugliate
di preferenze, vecchiaia, malattie, ostacoli giuridici. Ultimamente, qualche
mese fa, l’ho chiesto all’ultima possibile testimone, mia zia, moglie di uno
dei fratelli di mio padre: “Boh… – mi ha risposto – Si deve essere pensato che
fosse la cosa migliore per te”…