lunedì 5 dicembre 2016

XMas Poetry week, una riflessione e i versi di Gianluca Paciucci

“Nel fare poesia”, così Antonio Porta volle intitolare un libro, un’antologia personale del 1985 in cui accompagnava i suoi versi (potenti) con presentazioni e autocommenti. Preziosissimo questo sforzo di esplicitare quanto nel testo restava oscura: ma senza nulla togliere alla complessità e alla polisemia dei versi. L’autore si poneva al livello, peraltro splendido, di un qualunque lettore e interprete, pur essendo destinatore e destinatario dell’opera.
Così un mio piccolo nel fare poesia vorrei darvi e darmi. In una fase in cui sto scrivendo poco perché sopraffatto è il verso dal forte rumore che assale: rumore di vènti meccanici che spaccano, rumore di televisori e luci di smartphone ovunque brillanti, rumore di corpi che si ammalano e muoiono per follia militarista, fanatismi religiosi e marce forzate dell’esercito del capitale in moto ovunque. Il verso non si sente minacciato da tutto questo (sarebbe stolto aristocraticismo), ne viene semplicemente intriso, come un panno che beve tutto e che poi, strizzato, lascia nel lavello tracce di quanto raccolto in terra. Scrivo poco non perché infastidito dal reale ma perché da questo continuamente interrogato. E le domande non hanno risposte chiare. Il verso che ne cola, allora, è scarso e pieno di scorie, mentre tacciono pressoché tutte le altre possibili reazioni (a tacere più di tutto il resto, pur urlante, è la politica come arte della costruzione di nuovi mondi). Né poesia né politica, allora. Se non che qualche verso si ostina a presentarsi; se non che la strada presenta sempre il conto a chi passa, tirandolo per la giacca e obbligandolo a dire e a fare.
A dire e a fare poesia, chi può, chi deve. Ho intitolato un mio libro di versi “Rictus delle verità sociali” (Infinito edizioni, 2015) proprio per segnalare questo stato delle cose: uno sguaiato blocco dei muscoli facciali che fa del volto una maschera (di commedia e di tragedia insieme), e blocco delle verità che hanno percorso gli ultimi due secoli di esperienza dello stare al mondo. Ecco questi versi, del 1993 poi tornati a farsi sotto nel 2014:

Creta-Madrid
1.
Sotto la sagoma
nera d'un toro
riposano martiri
fascisti del '38,
sotto una lapide
di polvere e mani
intrecciate a croci:
profondamente
respirano intorno
cardi alti
come uomini all'erta,
come spinoso
picchetto d'onore
che sbanda sotto
i colpi del sole
duro: odio
fresco depongo
su quei morti
e paure che a furie
commiste crescono
fino a intralciarsi
all'agonia d'un
raggio residuo
sul muso mio:
murato vivo
in una maschera
di figlio

2.
Chi tu veramente
sia  non so,
tu nero fantasma
che selvaggio del cielo
invadi la torrida
arena di buio
spietato intridendola,
se un dio funesto
tu sia, oppure
un corrisposto
enigma di me
che corro per mari
e autovie scavo
e l'armonie indago
dei tempestosi
approdi e delle
lotte finali

3.
Ma è tempo che io,
il piccolo Odìsseo
di Creta capace
a volteggiare su
groppe in burrasca,
è tempo che il
terrificante
tuffo nel sogno
dei proci io
concluda complice
nell'ultimo ritorno


Un viaggio nella Spagna di allora, le autovie (autostrade) con gli enormi tori che si possono vedere lungo le maggiori vie di comunicazioni spagnole: ideati per il brandy Osborne, durante il franchismo, da Manolo Prieto, comunista, e una sosta improvvisa. Dietro una di quelle enormi sagome nere si nascondeva, dimenticato da tutti, un piccolo cimitero di ‘martiri franchisti’. La rivoluzione spagnola, e la relativa controrivoluzione, mi hanno sempre fatto pensare all’azione, alla generosità, e a qualcosa che, in realtà, non è finito ancora. Immagino così di deporre “odio/fresco”, negli anni Novanta ma ancora oggi, non per stolto antifascismo retorico e di facciata, ma perché niente deve essere lasciato nell’inghiottitoio della storia: a questa, come dalla bocca del leone, vanno strappati lacerti di verità, quelli che il felino non ha ancora del tutto maciullato. Niente è finito e i versi lo sanno: così indagano, e vanno ancora più indietro. Il toro nero rimanda a Creta, a Ulisse, forse arrivato anche da queste parti, nel cuore della penisola iberica, a portare giochi di tori e uomini, volteggi, acuta leggerezza e inganno. Ma ogni odissea ha un ritorno: indagare i “tempestosi /approdi” e le “lotte finali” fa precipitare nel sogno ultimo, che non è uno scontro, un cozzo di corpi: è calarsi nel sonno degli altri, dei pretendenti (che sono i nuovi distruttori, i venditori di falsità sociali) e sabotarli da dentro, forse complice ma forse nemico ancora più feroce perché non visto, non ritenuto tale. Ulisse si maschera, come si mascherano i marrani, apparentemente convertiti al cristianesimo ma che non panificano di sabato e che –magari dopo secoli- riescono a tornare alla fede antica. È il marranesimo così inteso l’approdo di questa fase della mia ricerca poetica: versi nascosti come Ulisse per poi riprendersi, quando sarà il momento, il trono. Senza brutture di maschi, ma con l’astuzia sfacciata e la parola che ridiventa chiave per aprire il chiuso delle esistenze.