“Nel fare poesia”, così
Antonio Porta volle intitolare un libro, un’antologia personale del 1985 in cui
accompagnava i suoi versi (potenti) con presentazioni e autocommenti.
Preziosissimo questo sforzo di esplicitare quanto nel testo restava oscura: ma
senza nulla togliere alla complessità e alla polisemia dei versi. L’autore si
poneva al livello, peraltro splendido, di un qualunque lettore e interprete,
pur essendo destinatore e destinatario dell’opera.
Così un mio piccolo nel fare poesia vorrei darvi e darmi. In una fase in cui sto
scrivendo poco perché sopraffatto è il verso dal forte rumore che assale:
rumore di vènti meccanici che spaccano, rumore di televisori e luci di smartphone ovunque brillanti, rumore di
corpi che si ammalano e muoiono per follia militarista, fanatismi religiosi e
marce forzate dell’esercito del capitale in moto ovunque. Il verso non si sente
minacciato da tutto questo (sarebbe stolto aristocraticismo), ne viene
semplicemente intriso, come un panno che beve tutto e che poi, strizzato,
lascia nel lavello tracce di quanto raccolto in terra. Scrivo poco non perché
infastidito dal reale ma perché da questo continuamente interrogato. E le
domande non hanno risposte chiare. Il verso che ne cola, allora, è scarso e
pieno di scorie, mentre tacciono pressoché tutte le altre possibili reazioni (a
tacere più di tutto il resto, pur urlante, è la politica come arte della
costruzione di nuovi mondi). Né poesia né politica, allora. Se non che qualche
verso si ostina a presentarsi; se non che la strada presenta sempre il conto a
chi passa, tirandolo per la giacca e obbligandolo a dire e a fare.
A dire e a fare poesia, chi può, chi deve.
Ho intitolato un mio libro di versi “Rictus delle verità sociali” (Infinito
edizioni, 2015) proprio per segnalare questo stato delle cose: uno sguaiato
blocco dei muscoli facciali che fa del volto una maschera (di commedia e di
tragedia insieme), e blocco delle verità che hanno percorso gli ultimi due
secoli di esperienza dello stare al mondo. Ecco questi versi, del 1993 poi
tornati a farsi sotto nel 2014:
Creta-Madrid
1.
Sotto
la sagoma
nera
d'un toro
riposano
martiri
fascisti
del '38,
sotto
una lapide
di
polvere e mani
intrecciate
a croci:
profondamente
respirano
intorno
cardi
alti
come
uomini all'erta,
come
spinoso
picchetto
d'onore
che
sbanda sotto
i
colpi del sole
duro:
odio
fresco
depongo
su
quei morti
e
paure che a furie
commiste
crescono
fino
a intralciarsi
all'agonia
d'un
raggio
residuo
sul
muso mio:
murato
vivo
in
una maschera
di
figlio
2.
Chi
tu veramente
sia non so,
tu
nero fantasma
che
selvaggio del cielo
invadi
la torrida
arena
di buio
spietato
intridendola,
se
un dio funesto
tu
sia, oppure
un
corrisposto
enigma
di me
che
corro per mari
e
autovie scavo
e
l'armonie indago
dei
tempestosi
approdi
e delle
lotte
finali
3.
Ma
è tempo che io,
il
piccolo Odìsseo
di
Creta capace
a
volteggiare su
groppe
in burrasca,
è
tempo che il
terrificante
tuffo
nel sogno
dei
proci io
concluda
complice
nell'ultimo
ritorno
Un viaggio nella Spagna di
allora, le autovie (autostrade) con
gli enormi tori che
si possono vedere lungo le maggiori vie di comunicazioni spagnole: ideati per
il brandy Osborne, durante il franchismo, da Manolo Prieto, comunista, e una
sosta improvvisa. Dietro una di quelle enormi sagome nere si nascondeva,
dimenticato da tutti, un piccolo cimitero di ‘martiri franchisti’. La
rivoluzione spagnola, e la relativa controrivoluzione, mi hanno sempre fatto
pensare all’azione, alla generosità, e a qualcosa che, in realtà, non è finito
ancora. Immagino così di deporre “odio/fresco”, negli anni Novanta ma ancora
oggi, non per stolto antifascismo retorico e di facciata, ma perché niente deve
essere lasciato nell’inghiottitoio della storia: a questa, come dalla bocca del
leone, vanno strappati lacerti di verità, quelli che il felino non ha ancora
del tutto maciullato. Niente è finito e i versi lo sanno: così indagano, e
vanno ancora più indietro. Il toro nero rimanda a Creta, a Ulisse, forse
arrivato anche da queste parti, nel cuore della penisola iberica, a portare
giochi di tori e uomini, volteggi, acuta leggerezza e inganno. Ma ogni odissea
ha un ritorno: indagare i “tempestosi /approdi” e le “lotte finali” fa
precipitare nel sogno ultimo, che non è uno scontro, un cozzo di corpi: è
calarsi nel sonno degli altri, dei pretendenti
(che sono i nuovi distruttori, i venditori di falsità sociali) e sabotarli
da dentro, forse complice ma forse nemico ancora più feroce perché non visto, non
ritenuto tale. Ulisse si maschera, come si mascherano i marrani, apparentemente convertiti al cristianesimo ma che non
panificano di sabato e che –magari dopo secoli- riescono a tornare alla fede
antica. È il marranesimo così inteso l’approdo di questa fase della mia ricerca
poetica: versi nascosti come Ulisse per poi riprendersi, quando sarà il
momento, il trono. Senza brutture di maschi, ma con l’astuzia sfacciata e la
parola che ridiventa chiave per aprire il chiuso delle esistenze.