martedì 3 febbraio 2015

Serbia-Croazia-Bosnia: quando le sentenze dell’Aja paiono fatte con la fotocopiatrice…

Lo scorso 2 febbraio 2015 la Corte di giustizia internazionale dell’Aja ha emesso una sentenza su una doppia denuncia relativa ai fatti delle Krajine e al conflitto serbo-croato del 1991-1995. La prima denuncia era stata presentata nel 1999 da Zagabria ai danni della Serbia, la seconda nel 2000 da Belgrado contro la Croazia. In tutte e due le denunce i governi dei due Paesi chiedevano alla Corte di riconoscere la fattispecie del genocidio nelle atrocità commesse dai militari e paramilitari agli ordini degli uni ai danni dei civili degli altri.
Il conflitto tra Croazia e Serbia costò la vita a ventimila persone, oltre ad aver ingenerato violenze e disumanità d’ogni sorta.
La sentenza del 2 febbraio della Corte dell’Aja è la fotocopia, ma moltiplicata per due, di quella emessa il 26 febbraio 2007 ancora dai quindici giudici della Corte di giustizia internazionale dell’Aja, a quel tempo presieduti dal giudice britannico Rosalyn Higgins (tra l’altro, membro della Corte dal 12 luglio 1995, il giorno in cui si consumò la pagina peggiore del genocidio di Srebrenica). Quel giorno la signora Higgins spiegò freddamente al mondo e ai parenti delle vittime di Srebrenica che, con tredici voti favorevoli e due contrari, la Corte aveva stabilito che la Serbia non aveva responsabilità per il genocidio di Srebrenica. Certo, la Corte riconosceva che nell’enclave era stato perpetrato un genocidio, ma sosteneva poi non esservi le prove che lo Stato serbo o parti di esso avessero la deliberata intenzione di «distruggere in tutto o in parte» la popolazione bosniaca musulmana. Al contempo, precisava la Corte, se la Serbia di Milošević aveva una responsabilità, è stata quella di non aver fatto tutto il possibile per prevenire il genocidio.
Otto anni dopo, ancora febbraio. A presiedere i quindici giudici internazionali all’Aja stavolta, febbraio 2015, è il magistrato e diplomatico slovacco Peter Tomka. Altra Corte, altro presidente, altri ricorrenti, ma identica sentenza: né la Serbia né la Croazia si resero tra il 1991 e il 1995 direttamente colpevoli di genocidio. La loro responsabilità è circoscritta, per la Corte, al solo fatto di «non averlo impedito». Un verdetto vincolante e inappellabile, che chiude una controversia lunga tre lustri senza soddisfare nessuno e senza dare quelle certezze a cui pure i cittadini dei due Paesi – e in particolare i parenti delle tante vittime – avrebbero diritto. Un verdetto, inoltre, che rende piuttosto incerto il futuro delle relazioni tra due Paesi che, vent’anni dopo la fine del conflitto, ancora si guardano in cagnesco e neppure hanno riallacciato le relazioni diplomatiche. Quel che è ancora più incredibile è che i responsabili politici e morali della mattanza di oltre ventimila persone, nel conflitto serbo-croato, rimangono sconosciuti. Non riconoscere la colpevolezza dei governanti croati e serbi di allora – non della Croazia e della Serbia di oggi – equivale quasi a negare che quei ventimila morti vi siano stati. Il tutto perché, secondo la sentenza letta da Tomka, le rispettive forze commisero sicuramente atrocità nei territori da esse occupati, ma «solo in alcuni degli episodi esaminati sono stati riscontrati gli estremi del genocidio, non in tutti». Inoltre, secondo la Corte, per poter formalizzare un’accusa di genocidio «è necessario il proposito deliberato di eliminare un determinato gruppo etnico, sul piano fisico ovvero psicologico». Tutti sanno, nei Balcani, che questi propositi c’erano, tanto da una parte quanto dall’altra, ma secondo la Corte internazionale, e secondo la sua sentenza scritta impeccabilmente in punta di diritto, nessuna delle due parti è stata in grado di fornire «prove sufficienti» per dimostrarlo.
La giustizia umana è davvero fallibile e fallace, purtroppo. Resta quella divina, ma non ne leggeremo mai i resoconti nelle pagine degli esteri dei giornali…