giovedì 19 febbraio 2015

Un anno senza Angelo Lallo ma con i suoi preziosi scritti e un regalo per chi lo vuole ricordare con noi


Un anno è già passato dalla scomparsa di Angelo Lallo, l'amico scrittore dal grande cuore la cui ultima fatica è stato lo splendido "Mala dies", che la famiglia presenterà quest'oggi a Palazzolo della Stella, in provincia di Udine, per fare sì che il lavoro di Angelo e la sua lotta per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) non vengano dimenticati. L'incontro si terrà presso il Centro Artistico Culturale ArtPort, in via del traghetto 3, alle 18,30. Partecipano Lorenzo Toresini, Giovanna Del Giudice e Marco Bertoli.Modera Viviana Zamarian, letture a cura di Rossana Valier. Segue la proiezione del film "Lo stato della follia", la cui regia è di un altro amico comune, l'ottimo regista Francesco Cordio.
Angelo ha dedicato la sua vita alla famiglia, al lavoro duro, prima in fabbrica poi sui libri e a scuola, per i suoi ragazzi. Ha scoperto già grande la sua passione per la ricerca storica e ha firmato alcuni libri che sono e saranno pietre miliari della ricerca storica applicata alla psichiatria. Ha firmato molti titoli, e per Infinito edizioni ha pubblicato due capolavori che s'intitolano "Il sentiero dei tulipani" e "Mala dies".
Il 2015 è l’anno del ventennale del genocidio di Srebrenica e della fine della guerra in Bosnia Erzegovina. Angelo, che ha dedicato buona parte della sua vita di ricercatore a questo Paese balcanico che amava profondamente, avrebbe passato quest’anno in giro per l’Italia a raccontare la guerra e la pace in Bosnia.
Ci fa piacere ricordarlo, in questa giornata di sole ma di vuoto per la sua assenza, regalando il primo capitolo de “Il sentiero dei tulipani”, il libro che lo ha visto coniare un neologismo, psiconazionalismo, di cui si parlerà molto in futuro.

Cattivi e pessimi

Il delirio di K, fulminante e senza equivoci. Il suo sogno – o la sua ossessione – era di riconvertire Sarajevo in un’immensa istituzione totale. La terra della convivenza etnica e della tolleranza religiosa doveva essere umiliata. Il suo folle progetto era disegnato in modo da disperdere la secolare diversità che si respirava nella celebre porta carovaniera dei Balcani, l’antico borgo di Saraj-ovasi. Il segnale che suonava come punizione verso la città, in realtà diventava un monito indirizzato alle terre balcaniche e K da tempo minacciava i bosniaci a non intraprendere la stessa strada della Slovenia e della Croazia perché il prezzo da pagare era l’annientamento, la sparizione dei musulmani di Bosnia.
Incurante dei moniti di K – un megalomane che da tempo esternava folli dichiarazioni separatiste – il Parlamento bosniaco votò a maggioranza in una drammatica seduta del 15 ottobre 1991 una dichiarazione d’intenti che definiva “la Bosnia Erzegovina uno stato democratico e sovrano, di cittadini di pari diritti, popoli della Bosnia Erzegovina, musulmani, serbi, croati e appartenenti ad altri popoli e nazionalità che in essa vivono”.
Il massimo del pronunciamento democratico del nascente Stato bosniaco aveva colpito il cuore gonfio di rancore di K. Nel pomeriggio dello stesso giorno, a poche ore dalla votazione, migliaia di miliziani dotati di artiglieria ad alta precisione si appostarono tra le montagne che circondano Sarajevo con le armi rivolte verso “l’altra” popolazione. Non c’era più scampo per gli abitanti della città. Sarajevo, tenuta da quel momento in poi in ostaggio per 1.350 giorni nel più lungo assedio della storia contemporanea, fu accuratamente gestita con le armi dai miliziani cetnici con le regole ferree di un’istituzione totale.
La città era sotto il controllo dei cecchini che sparavano sulla gente inerme, premiati con un pugno di marchi per ogni sagoma vivente colpita. La regola d’ingaggio consisteva nello sparare alle persone che correvano sullo Sniper Alley, l’arteria stradale principale di Sarajevo. Non era un gioco da baraccone, ma una precisa strategia di terrore, di punizione permanente, di vendetta. La selezione dei cecchini si basava su dei parametri semplici: odiare visceralmente i musulmani e saper colpire un barattolo con un fucile da almeno cento metri di distanza. In cambio del loro odio i cecchini a fine giornata si sarebbero portati a casa un bel gruzzolo. Alla selezione si presentarono in tanti e, con grande soddisfazione dei selezionatori, si proposero anche donne stranamente più incattivite dei maschi. L’ignobile reality show aveva lo scopo di tenere sotto pressione la gente di Sarajevo, farla convivere con la paura, devastare e sconvolgere la sua quotidianità. Nulla doveva essere come prima. Portare a scuola i bambini, andare a fare la spesa, passeggiare, erano fasi della vita da cancellare: strategia perfetta per incutere terrore, perché non era semplice nascondersi dietro i tank per andare a prendere l’acqua o calcolare sempre – metro per metro – le angolazioni di sparo. Le regole d’ingaggio dei cecchini prevedevano di colpire i luoghi pubblici, quelli più affollati. I tram e gli autobus diventarono trappole mortali, e il terrore che si respirava su quei mezzi raggiungeva momenti d’isteria pazzesca quando i proiettili arrivavano a segno: sangue dappertutto, indistinto, la morte che colpiva così, a caso. E quando si voleva centrare il bersaglio con ancora più precisione, senza possibilità di errore, si spararono colpi di mortaio sulla gente che affollava le bancarelle, come al mercato di via Vase Miškina. Terribile e perverso disegno tracciato con la matita di architetti psicopatici che hanno costruito con grande mestiere un muro di paura e di terrore.
K conosceva le regole della psicologia di massa perché era uno psichiatra, medico in servizio attivo nella clinica psichiatrica dell’ospedale Koševo di Sarajevo. Nelle riunioni settimanali partecipava come tutti alle discussioni senza dare segnali di inquietudine, mai un problema con qualche collega o con il primario. Non era particolarmente brillante nella prassi quotidiana, era uno dei tanti mestieranti fortunati che si era trovato al punto giusto, nel momento giusto. Forse era il suo doppio quando prendeva parte alle feste di compleanno con tutti gli altri, improvvisando, cantando, recitando. Ma nel suo cuore covava il rancore verso la cricca culturale di Sarajevo che non lo accettava come “grande poeta contemporaneo”, secondo la sua stessa definizione. Molti lo accusavano di essere un doppiogiochista, al soldo dei servizi segreti, arricchito in poco tempo forse – si diceva – con i soldi del contrabbando e della delazione. K non lo poteva sopportare, non poteva accettare che quattro intellettuali con la puzza sotto il naso stroncassero le sue poesie, addirittura eliminando il suo nome dalle rose dei premi letterari di Sarajevo. Girava con ossessione tutti i luoghi di aggregazione giovanile e quando scopriva qualche postaccio, non convinceva neanche una persona ad ascoltare i suoi versi. Solo poche volte in privato gli era sfuggito il suo vero pensiero, perché era convinto che dietro all’accantonamento sociale ci fosse odio etnico, in qualche modo legato alla sua provenienza montenegrina.
K decise di chiudere con il passato, e in un giornata autunnale di inizio Anni ‘90 non si presentò al lavoro, nessuna telefonata di rito, nessun avviso al primario o ai suoi colleghi, gli effetti abbandonati in un armadietto della clinica psichiatrica. K era introvabile; veniva segnalato in Serbia, in Montenegro o in Macedonia, invece era a Pale, pieno di soldi accumulati con il contrabbando di benzina e alcol, a pochissima distanza da Sarajevo, circondato dai miliziani, in attesa di dare una lezione a chi non aveva creduto alle sue parole e al suo talento. La polizia internazionale poteva arrestarlo come e quando voleva, ma il temporaggiamento – chissà, forse contrattato – ha deciso i destini della comunità bosniaca. Quando K, ormai presidente del Partito democratico serbo (Srpska Demokratska Stranka  – Sds) nelle elezioni del dicembre 1990 ottenne 72 seggi, i suoi colleghi psichiatri rimasero sbigottiti perché l’uomo non sapeva gestire neanche un reparto ospedaliero, figurarsi manovrare un partito nazionalista. Grave sottovalutazione, perché K aveva la copertura di Belgrado, che rimestava nel sottobosco dei tecnici della mente, criminali comuni, faccendieri legati alla mafia internazionale, disposti a tutto pur di arricchirsi.
K ricomparve sulla scena con il nome esteso, Radovan Karadžić, firmando la prima granata sparata su Sarajevo dalle colline verso la zona dove era ubicata la sede del suo lavoro, incurante di amici e pazienti, svelando la vera natura di uomo fragile, rancoroso e manipolato. La clinica psichiatrica, diventato il luogo di ricovero più affollato della città, fu bombardata per più di trenta volte; stranamente l’ospedale in quel periodo non aveva pazienti con manie di suicidio perché a Sarajevo, singolarmente, la sindrome da suicidio era sparita.
Questo è il breve incipit dell’assedio di Sarajevo, ultima tragedia del Novecento, ma i fatti di Bosnia sono avvenimenti che molti tendono a definire come-se-fossero-veri o semplicemente falsi. Il tentativo di falsificare la realtà incontrovertibile utilizzando il mito, la storia popolare, i mass media, pur di dimostrare che in Bosnia c’è stato un evento indecifrabile o semplicemente uno scontro tribale tra popolazioni condannate dal loro inconscio collettivo, è stata un’operazione multipla di depistaggio nella ricerca delle responsabilità del conflitto. Di quella semplificazione storica sono rimaste le macerie; la divisione artificiosa delle popolazioni balcaniche tra “cattivi e pessimi” ha creato un colpevole ritardo di definizione, difficilmente colmabile in un Paese ferito e diviso. A tre lustri dalla fine del conflitto in Bosnia Erzegovina e dai nefasti accordi di Dayton, il tempo si è fermato e il popolo bosniaco attende ancora risposte che tardano a venire. Perché Sarajevo è stata assediata? Per quale motivo l’Onu non è intervenuta a Srebrenica, lasciando Ratko Mladić libero di giustiziare 10.701 musulmani bosniaci con un’operazione in stile nazista, con le ruspe che scavavano le fosse comuni sotto gli occhi di ragazzi e vecchi inermi, senza possibilità di difendersi? Perché a Dayton si è calato il sipario allestendo uno Stato frammentato, ratificando in questo modo la pulizia etnica e il sogno dei nazionalisti serbi, croati e islamici? Pur di chiudere in fretta quella che per loro era un’inutile perdita di tempo e di soldi, Usa e Paesi europei hanno accettato l’imposizione della divisione del territorio concedendo poco più della metà alla Federacija Bosnia Erzegovina croato-musulmana, svelando il poco interesse per i “miserabili” dei Balcani, e hanno permesso la fondazione della Republika Srpska – nata sul genocidio – mettendo sullo stesso piano aggrediti e aggressori. La differenza è nei numeri, in una misera differenza territoriale del 2 per cento elargita a chi ha subito, tra tante altre tragedie, il genocidio di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo.
Cattivi e pessimi è un concetto frutto non solo di un’invenzione giornalistica, ma il motivo di fondo delle agenzie politiche internazionali che hanno immesso in circuito l’idea capziosa che in quelle terre tutti sono colpevoli nella stessa maniera, non ci sono stati aggressori e vittime, assalitori e assaliti, anzi non c’è stata neanche l’aggressione. Ma è un paradigma fragile, in linea con la preparazione autoassolutoria del non intervento da collegare ai pregiudizi riservati alle popolazioni balcaniche fondati sull’odio atavico, l’abitudine secolare dell’homo balcanicus a uccidere, il fanatismo etnico, l’intolleranza religiosa, l’ignoranza e la miseria. Qui invece si discute della storia di un popolo che ha fatto della pacifica convivenza un dato distintivo e che per tutta risposta è stato fatto a pezzi scientificamente dagli interessi della politica nazionalista di Slobodan Milošević, di Franjo Tuđman e di Alija Izetbegović.
I modelli di discussione invece devono essere dissonanti in quanto si è catapultati in una dimensione diversa da qualsiasi altro territorio europeo. Gli avvenimenti vanno analizzati con attenzione partendo dal dato di non avere una condivisione storica degli eventi. Se i documenti e le fonti storiche non sono dei fenomeni oggettivi e sono dipendenti da chi li produce, in Bosnia Erzegovina sono ancora meno oggettivi per la semplice ragione che serbi, croati e bosniaci hanno verità storiche contrapposte e inconciliabili.
I vincitori hanno sempre scritto la Storia, ma in Bosnia Erzegovina questo è impossibile perché qui non ci sono stati vincitori. Un esempio è il difficile dibattito storico sull’operazione Oluja: l’intervento militare croato denominato Tempesta – appoggiato nel 1995 dal Pentagono – che produsse, nella Krajina in zona croata, l’assassinio di centinaia di civili serbi e l’allontanamento in pochissime ore di duecentomila serbi dagli ospedali, dalle scuole, dalle loro case saccheggiate e bruciate. Una moltitudine di persone inermi che in poche ore ha disfatto ogni storia individuale, lasciando il proprio mondo per il sol fatto di avere cognomi serbi e abitare in territori rivendicati dalla Croazia. Ancora oggi queste popolazioni vivono disperse, senza status internazionale, non accettate dalla Serbia perché corpi separati, semplicemente dimenticati. Zagabria esalta la liberazione della Krajina dagli “altri”, invece Belgrado qualifica Oluja come crimine di guerra e pulizia etnica. In questo caso non c’è alcuna possibilità di interpretazione anche per i più incalliti negazionisti: la popolazione serba delle Krajine è stata oggetto di pulizia etnica da parte dei croati e questo è un fatto storico, incontrovertibile, giudicato come crimine di guerra dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia (Tpi). L’opinione pubblica deve porre domande, ascoltare, decifrare le testimonianze, leggere con attenzione i dati e difendere l’assioma che una realtà storica non si comprende mai in modo migliore che tramite la ricerca delle sue cause. Tuttavia non possiamo nascondere che nello scenario della guerra in Bosnia è difficile seguire il percorso che racconta il conflitto come terminale, quasi scontato, di controversie religiose, economiche ed etniche. Non possiamo seguire tesi precostituite perché è ragionevole escludere come principale causa del conflitto controversie religiose. In definitiva, proprio la particolarità dell’esistenza delle chiese ebraiche, cattoliche, ortodosse e musulmane, raramente riscontrabile in altri Paesi, ha salvato la Bosnia dalla completa distruzione. Basta fare un giro per Sarajevo per convincersi di queste tesi: in poche centinaia di metri ci si imbatte nella chiesta ortodossa e in quella cattolica, nella sinagoga o nella medresa, nella splendente moschea di Gazi Husrev-beg e, appena poco distante dal centro, nel convento francescano.
Tuttavia non possiamo nascondere che alcuni settori estremisti ortodossi e cattolici delle chiese serbe e croate hanno foraggiato i criminali di guerra con corpose sovvenzioni, con la giustificazione di fermare la cospirazione islamica. Pretesti. Secondo stime ufficiali dei primi Anni ’90, i musulmani praticanti in Bosnia Erzegovina superavano di poco il 17 per cento, in realtà la percentuale era ancora più bassa perché i calcoli consideravano anche coloro che osservavano solo le tradizioni culturali e con questi numeri non si poteva sovvertire neanche un quartiere di Sarajevo. È una tesi poi clamorosamente smentita dal genocidio di Srebrenica, poiché dopo quel massacro non c’è stato alcun attentato di matrice musulmana, né in Bosnia né in altri Paesi, smentendo lo spettro sempre evocato del “pericolo islamico”.
La Bosnia è sempre stata sull’agenda delle grandi potenze perché da un punto di vista geopolitico è un Paese strategico nel cuore dell’Europa orientale; il suo territorio è stato depredato di quasi tutte le risorse naturali (zinco, carbone, minerali di ferro, manganese) compreso l’argento del sottosuolo di Srebrenica (Argentaria per i latini), ormai quasi esaurito. La Bosnia Erzegovina ha poi un’enorme ricchezza nel sottosuolo (acqua e petrolio) assolutamente ancora vergine, pronta per il grande sfruttamento. Tra le motivazioni dello smembramento del Paese possono essere annoverate anche cause economiche e così molti passaggi politici oscuri delle grandi potenze potrebbero avere un senso.
I giochi pericolosi di Dayton si sono dispiegati nella spartizione del territorio bosniaco quando si è fatto attenzione ad assegnare alla Republika Srpska la parte di territorio ricca di foreste, legname, acqua e del petrolio eventualmente da estrarre. Evidentemente si stava ragionando a lungo termine, per quando le condizioni internazionali avrebbero permesso alla Republika Srpska di staccarsi dalla Bosnia con un minimo di autosufficienza economica formalizzando, con un plebiscito di voti, la secessione già scritta nelle pieghe degli accordi di Dayton.
Rileggendo vecchi articoli di giornali, la maggior parte dei giornalisti che si occupavano di Bosnia hanno accreditato nei loro reportage la storiella della guerra etnica nascondendo a loro stessi che il popolo bosniaco ha vissuto per secoli in un clima di convivenza con incroci etnici del 45 per cento della popolazione, con il risultato che quasi una famiglia su due era mista. Quando la Bosnia era su tutti i video del mondo, alcuni analisti davano informazioni su una guerra con contenuti affaristici, sociali e culturali; con lo scontro tra città e campagna nell’era della globalizzazione; per un profondo odio di classe delle campagne verso i ceti cittadini che vivevano nel benessere.
Un’altra tesi accreditata era un conflitto proclamato in nome dell’identità etnica e da fattori internazionali di geopolitica. Il riferimento in quest’ultimo caso era al disegno di smembramento della Jugoslavia con l’avallo di Paesi europei. Le prime due targhe diplomatiche della Croazia sono state della Germania e del Vaticano, i primi Stati a riconoscerne l’indipendenza; se per il Vaticano era quasi scontato riconoscere la Croazia perché abitata da un popolo di religione cattolica, per la Germania il riconoscimento fu un passo decisivo per rientrare da protagonista nello scacchiere balcanico. Tuttavia sono teorie che in realtà nascondono un’analisi storica debole, omologata sempre di più all’opinione pubblica occidentale – indistinta e inquadrata – che non è interessata a eventi che non provengano dai Paesi europei e americani. Sostiene Pedrag Matvejević che la memoria storica costituì una delle fonti fatali della guerra e della fine della Jugoslavia. Se questa è la guerra della vendetta e dell’odio, merita un approfondimento perché il logico finale è che si potrà raggiungere una reale pacificazione solo quando i libri scolastici avranno rielaborato le vicende del conflitto scrivendo una storia condivisa, a patto di slegare la memoria collettiva dalla memoria nazionalista, quella avvolta dall’identità etnica che produce l’ideologia nazionale. Ma attenzione che queste condizioni, sebbene pericolose, non producono crimini di guerra; l’idea spinoziana che sono i leader politici e militari a spingere una parte della popolazione a commettere crimini di guerra rimane ancora la più valida ed è una teoria che ha trovato realistica conferma nelle terre balcaniche.
Tuttavia in queste terre i leader politici avevano bisogno di teoria e prassi: nell’organigramma dei colpevoli che hanno distrutto la Bosnia, una parte rilevante spetta a quegli psichiatri e psicologi nazionalisti deviati, per professione abituati a governare le dinamiche della mente; biologi studiosi della purezza genetica; intellettuali che rovistavano nei cesti della storia per recuperare introvabili giustificazioni storiche e filosofiche alla pulizia etnica. Figure che affidarono il lavoro sporco non solo a Karadžić, Arkan, Mladić, il colonnello croato Ante Gotovina, ma anche a politici come Biljana Plavšic, biologa ed ex presidente della Republica Srpska.
La Plavšic si è consegnata spontaneamente nel 2001 al Tpi ammettendo le sue colpe politiche, negando tuttavia le accuse di genocidio e di crimini contro l’umanità. Nel 2003 è stata condannata singolarmente a soli undici anni di reclusione, da scontare in un confortevole carcere svedese dotato di sauna, pur in presenza di una sentenza che faceva riferimento al suo ruolo di cinghia di trasmissione tra i teorici del piano di pulizia etnica e gli esecutori materiali. La sentenza fa espresso riferimento “alla depravazione degli atti commessi, alla responsabilità di migliaia di morti e all’espulsione di migliaia di persone in condizioni di estrema brutalità”. Il 27 ottobre 2009 è stata liberata dopo soli sei anni di detenzione perché la legge svedese consente la scarcerazione dopo aver scontato i due terzi della pena. In realtà Biljana Plavšic non si è mai pentita e non ha mai abiurato le sue idee razziste nei confronti dei musulmani, considerati “inferiori e biologicamente di un valore minore rispetto al popolo serbo”.
Si tratta di criminali da considerare attori responsabili dei 1.350 giorni di assedio della città di Sarajevo; del massacro di 10.701 maschi musulmani a Srebrenica; di un totale di circa 258.000 morti (di cui 16.000 bambini), 20.000 disabili, 50.000 donne stuprate, 45.000 orfani di almeno un genitore; di 1.170.000 profughi di guerra e 1.250.000 rifugiati politici; di almeno un milione di mine e di ordigni bellici inesplosi ancora disseminati per tutta la Bosnia. Ecco, di tutto questo gli accordi di Dayton non fanno menzione, e i patti internazionali, ratificando la pulizia etnica, hanno cancellato con un atto amministrativo le responsabilità politiche e militari di Milošević, Tuđman e Izetbegović sulla guerra in generale, ma hanno lasciato sul terreno situazioni irrisolte che determinano l’instabilità permanente della Bosnia Erzegovina.
L’Occidente è intervenuto sui sintomi del conflitto tralasciando le cause, considerando la guerra un problema militare e non politico. L’idea di fondo “se tutti usano le armi-tutti sono colpevoli, deposte le armi i problemi si risolveranno d’incanto”, era solo un alibi. Ma decretando l’embargo delle armi si dispose la morte della Bosnia Erzegovina, che non si è potuta difendere. Sono temi oggi rimossi, tuttavia l’Occidente dovrà dare risposte sul perché non abbia saputo difendere non solo l’idea della convivenza multinazionale, ma il concetto della salvaguardia della persona e della dignità dell’uomo. Non ci sarà giustizia fino a quando non verranno date risposte alle madri di Srebrenica. Non ci sarà giustizia fino a quando non si porterà davanti al Tpi dell’Aja il generale Mladić, ma fino a quel momento siamo ancora autorizzati a considerare l’Onu in bancarotta morale. Per usare le parole dell’ex procuratrice capo, Carla Del Ponte, il muro di gomma è quasi impossibile da penetrare, ma pensare di costruire un Paese normale senza giustizia assicura futuri conflitti nell’instabile Stato bosniaco.
Questo libro è la prosecuzione del Il tunnel di Sarajevo, con l’aggiornamento di notizie che sono state “sottratte” con difficoltà alle istituzioni della Bosnia Erzegovina. In due anni di richieste non ci sono state riscontri ufficiali, e neanche gli intellettuali più aperti di Sarajevo hanno dato risposte, nonostante l’assicurazione del più totale anonimato. Nessuna notizia, nemmeno una. Storici, medici, analisti hanno replicato con un assordante silenzio, rafforzando l’idea che c’è più paura adesso che nell’immediato dopoguerra bosniaco. Se chiedevi di avere dati su Jovan Rašković la risposta con e-mail cortesi era che “è un personaggio minore, non vale la pena di argomentare su di lui, bastano i dati che si trovano su Wikipedia”.
Per fortuna documenti importanti sono arrivati tramite persone che per vie traverse hanno fornito notizie riservate, che permettono di approfondire tematiche ritenute pericolose dalle istituzioni bosniache. Si tratta di dati riguardanti problematiche sociali e psichiatriche che attestano la deriva di un Paese depresso; strategie di bonifica di un Paese pericolosamente insidiato ancora da un milione di mine; documenti non pubblici sulla condizione delle donne violentate. I racconti sono testimonianze di gente comune che ha vissuto direttamente gli eventi narrati. Il testo è completato con indispensabili notizie tratte da altri studi già pubblicati. Le fonti sono private, acquisite direttamente nel luogo di emanazioni dei documenti, citati in forma anonima per tutelare le persone che lavorano nelle cliniche psichiatriche, negli orfanotrofi, nelle strutture mediche, nei centri di ricerca sociale e storica, all’Istituto di statistica, all’Istituto federale di sanità.