Il 14
dicembre 1995, a Parigi, venivano firmati gli Accordi di Dayton, formalizzati
nell’Ohio (Usa) neanche un mese prima.
Gli
Accordi – che, tra le altre cose, riconoscevano l’intangibilità delle frontiere
– mettevano fine formalmente (nella realtà, ad esempio, l’assedio di Sarajevo
sarebbe durato fino al febbraio dell’anno dopo, giungendo al record assoluto di
1.445 giorni) al conflitto bosniaco-erzegovese del 1992-1995, lasciando un Paese
devastato e rimandato strutturalmente indietro nel tempo di mezzo secolo, oltre
a circa 104.000 morti sul terreno.
I
numeri di quella guerra fanno paura e sarà bene ricordarne qualcuno, anche a
beneficio dei tanti negazionisti e dei troppi nazionalisti ancora oggi intenti
a disseminare odio e a girare il coltello nella piaga di un dopoguerra
particolarmente doloroso e instabile. Oltre alle vittime, di cui sopra (il 68% circa
delle quali appartenenti al gruppo musulmano-bosniaco, il 26% circa a quello
serbo-bosniaco, poco più del 5% a quello croato-bosniaco, più un migliaio di “altri”
a chiudere le statistiche dell’orrore), relativo alle vittime accertate di
quella guerra, vanno senz’altro ricordati i 2,2 milioni circa di sfollati, gli 1,5
milioni di profughi che ancora oggi costituiscono in gran parte la diaspora
bosniaca all’estero, i circa 16.000 desaparecidos
e alcuni degli episodi più spaventosi, come i 10.701 morti del genocidio di
Srebrenica, il ritorno dei campi di sterminio in Europa (ad esempio Omarska nei
pressi di Prijedor), la pulizia etnica integrale di Višegrad e molti altri
ancora.
Oggi,
ventidue anni dopo, ancora molti idioti continuano a soffiare sulle braci
ancora calde per far piombare di nuovo la Bosnia Erzegovina nell’incubo. Alle
persone di buona volontà il compito di raccogliere e tramandare memoria per
fare sì che non si ripeta di nuovo.