Il
viaggiatore balcanico Lorenzo Gambetta ha letto Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio e mi ha inviato ieri questa
bella lettera, che è recensione, riflessione, mea culpa collettivo, promessa.
Grazie a lui per averla scritta, a voi che la leggerete e poi troverete la
voglia di leggere Višegrad. L’odio, lamorte, l’oblio.
È un
libro che non finisce nella tua libreria per caso: se ti è stato regalato,
arriva da un finissimo buongustaio, se lo hai comprato conosci bene Višegrad,
la Bosnia, l’orrore di una guerra assurda. Assurda sì, forse anche meno
conosciuta di quello che si dovrebbe.
Per
chi come me è nato in Italia negli anni Ottanta, la guerra nell’ex Jugoslavia
non è stata “vissuta”, troppo piccoli, troppo ingenui. I ricordi che si hanno
sono legati alle brevi immagini del Tg delle 20,00 dove si vedevano i palazzoni
socialisti di Sarajevo che bruciavano, il ponte di Mostar che cadeva sotto
infame bombardamento e una frase bisbigliata che diceva di cambiare canale
perché non era roba per bambini. Già, non era roba per bambini. Forse però lo
era per gli adulti, che di fronte a tante atrocità hanno dimenticato troppo in
fretta i moniti e le vacue promesse fatte quando sono stati aperti e resi
pubblici i cancelli dell’inferno dell’olocausto.
Tutti
conoscono la triste storia di Anna Frank, pochissimi conoscono quella di Zlata
Filipović. Eppure si tratta di due bambine i cui occhi hanno visto in egual
misura il terrore, la morte, l’angoscia e la disperazione. Parimenti tutti
hanno letto I promessi Sposi,
pochissimi Il ponte sulla Drina,
nonostante Ivo Andrić fosse un premio Nobel. Troppo lontana la Bosnia, troppo
difficile da capire quella terra tormentata alla confluenza di due mondi,
cristiano e musulmano, dove si incontrano da sempre etnie, religioni e culture.
Bosnia terra di sangue, di miele e di ponti, come quello sulla Drina appunto, a
Višegrad.
Sono
convinto che con questo libro Luca Leone possa riuscire dove non è riuscito Andrić,
ovvero fare in modo che il ponte e il fiume di questa città entrino nell’orbita
della percezione dell’uomo qualunque. Sono troppo distanti dalla sua vita
quotidiana il visir Mehmed Pascià o i Beg che parlano di stelle e di Allah
sulla Kapija, più facile venga svegliato dal suo colpevole torpore leggendo di
Bakira, di Kym, di Lejla, di Kanita e del gigante triste Amor. Storie di esseri
umani forti, a cui è stato tolto tutto ma che nonostante questo hanno una forza
e una dignità senza eguali.
Le
parole del libro sono toccanti, hai la sensazione di essere di fronte a queste
persone ad ascoltare le loro storie. Essere di fianco a Luca Leone che, con un
nodo alla gola, le ascolta. E con lui vorresti abbracciarle, vorresti piangere,
a tratti vomitare, poi urlare. Ti rendi però conto che non puoi che provare
vergogna, per colpe non tue certo, ma il senso di umanità che c’è in ognuno di
noi viene scalfito prepotentemente e irrimediabilmente. Non può che essere
così. Ed è giusto che lo sia, perché questo libro non finisce, sfogliata la sua
ultima pagina.
Le
storie e la terra in esso contenute, sono vive. Oggi più che mai. Nell’odierna
Bosnia, che in questi giorni festeggia mestamente l’anniversario degli accordi
di Dayton che posero fine alla guerra che ha devastato le sue interiora, in
troppi soffiano beffardi sulle braci ancora calde, facendo leva sui
nazionalismi e sulla mancanza di speranza del popolo, povero e costretto a
lasciare la propria amata terra. Non può esserci un futuro per questo Paese se
prima non viene trovata giustizia. Quella giustizia che è stata negata troppe
volte, alle madri di Srebrenica, agli abitanti di Višegrad, ai prigionieri di
Jasenovac, Prijedor, Foča, agli abitanti resilienti della Sarajevo assediata. E
a tanti altri. A troppi altri.
Questo
libro pesa, più di quanto sembra. Dopo averlo letto non si hanno più scuse, non
si può più fare finta di niente. Non si può metterlo su uno scaffale a prendere
polvere, ma va tenuto sul comodino, perché ci ricordi ogni giorno il carico di
morte, di vita e di oblio che contiene.
Lorenzo
Gambetta