Davide Roncaioli, viaggiatore nei Balcani, mi ha fatto trovare questa mattina nella posta elettronica questa bella riflessione, nata dalla lettura del mio I bastardi di Sarajevo, uno dei libri che più sforzo mi è costato scrivere e che più riscontri ha avuto dai miei cari e impegnati lettori. Questa bella lettera mi fa capire come si debba continuare a parlare di Bosnia e di Balcani e che i modi per farlo possono essere i più vari: l'importante è che siano efficaci e veri, non propagandistici. Il mio unico rimpianto è stato quello di aver dovuto interrompere la promozione de I bastardi di Sarajevo, a suo tempo, per cominciare quella di un altro libro importante, Srebrenica. La giustizia negata. Purtroppo i due libri uscirono, a suo tempo, con troppi pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. E questo andò a penalizzare il mio primo e unico romanzo sulla Bosnia Erzegovina. Grazie a Davide per quanto ha scritto e per avermi fatto capire che forse un giorno varrà la pena non solo rispolverare le pagine de I bastardi di Sarajevo, ma anche forse procedere con la scrittura del nuovo romanzo sulla Bosnia, che ho in mente da tempo, che nella mia testa si dipana giorno dopo giorno, e che mai ho avuto il tempo, il coraggio e la forza di cominciare a scrivere.
"Sfogliata l'ultima pagina di questo
libro sai già che ti mancherà. È una sensazione strana, l’amaro in bocca che ti
lasciano le parole finali sui Bastardi. Un appellativo assolutamente
appropriato per definire piccoli uomini (se così possiamo chiamarli) che
sfruttando lo stato di caos durante l’assedio si arricchirono alle spalle della
povera gente, costretta persino a bruciare gli ultimi mobili di casa per
scaldarsi. L’animo rimane turbato, il cuore scosso, come annebbiato, dalla
stessa foschia che ricopre la Baščaršija in una gelida mattina di fine
novembre. Passeggi con la mente per la Ferhadija e non puoi fare a meno di
fermarti a guardare una finestra, la stessa, forse, dalla quale una ragazza,
distrutta, violentata, profanata dalla sua storia di vergine venduta, si tolse
la vita. Provò a volare come gli angeli, non appena fu informata della
dipartita della sorella malata. Trovò la morte, quella fisica. La bellezza e la
vita, invece, già appassite alcuni anni prima tra le luride mani dei suoi
aguzzini cetnici. La storia dei Balcani è questa, dolore e accanimento. Troppo
rispetto a quanto questa gente, fiera, ne possa digerire.
L’intreccio del libro svela molte
vicende, narra di predatori, mercenari, faccendieri che per qualche sporco
marco fanno divertire annoiati turisti europei, persino italiani. I personaggi
sono sempre quelli, ratti immortali, che durante la guerra popolarono trincee,
palazzi occupati e montagne con gitanti travestiti da cecchini a pagamento sui
civili di Sarajevo. Oggi, in tempo di “pace”, si sono specializzati quali
accompagnatori di caccia illegale in Croazia, ma non disdegnano di tornare all’antico
hobby accanendosi su tribù
dimenticate della Bosnia Centrale. Emozioni forti per spiriti malati. Lo scorrere
delle parole fa riflettere, costringe a cercare nell’animo buio della tua
anima. I fatti sembrano lontanissimi, quasi irreali, ma in realtà trovano
sviluppo appena oltre l’Adriatico. Le cupe vampe che ancora avvolgono la Bosnia
sono vive, la corruzione è il combustibile. Politici che controllano la stampa,
anzi la brutalizzano con metodi da milizia paramilitare. E il tutto viene
coperto da una fitta coltre di silenzio, perché l’esercizio criminale del
potere non va disturbato. Le opposizioni devono essere normalizzate, siano esse
intellettuali o giornalistiche. In tutte le burocrazie di Stato il collante è
la menzogna. La narrazione ci mostra anche la speranza, la troviamo nella
faccia pulita, onesta di un vecchio professore universitario che ridicolizza il
suo studente, ora onorevole candidato in
pectore a importanti ruoli politici, mettendolo con ironia tutta balcanica
davanti alle sue pochezze.
C’è chi si è venduto, chi ha perso e
chi non ha mai abbandonato la retta via. Questa è la sottile differenza.
Lo scenario che intuiamo da
queste pagine è quello di una situazione del Paese cristallizzata, come quell’uomo
del film No Man’s Land seduto su una
mina. Se si muove, è la fine. Ma è seduto su un posto meraviglioso. Il nostro
compito è quello di tenere accesa la luce, di mostrare che sotto al marcio
qualcosa può rifiorire; la coscienza civile, la generosa ospitalità del popolo
bosniaco è intatta. E questo libro ne è il manifesto. Rumiz descrive
poeticamente Sarajevo come un signore in giacca e cravatta che esce
perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua. Bene. Al rudere la facciata
è stata rifatta, il signore nel frattempo è invecchiato e sul suo volto
sbarbato sono comparse rughe cariche di vita, vissuta con dignità e orgoglio".