L’inverno
stranamente mite anche nei Balcani ha ispirato uno striscione significativo,
esposto ieri da un paio di centinaia di manifestanti a Sarajevo, sotto la
pioggia: “Non c’è la neve, avete rubato anche quella”, c’era scritto, a sintetizzare
lo stato d’animo dei cittadini della Bosnia Erzergovina nei confronti dei
politici nazionali e locali, accusati di aver intascato il possibile e l’impossibile
negli ultimi vent’anni, invece di provare a fare gli interessi di un Paese mantenuto
in condizioni orribili di povertà. È, con parole sue, quel che sempre ieri ha
dichiarato anche il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, il primo dei
rappresentanti di Paesi stranieri giunto a Sarajevo per spingere “le forze
politiche bosniache ad adoperarsi per un efficace funzionamento del Paese” ma
anche per dare un’occhiata allo stato dei molti investimenti turchi in Bosnia e
che nessuno li danneggiasse.
Intanto,
sempre all’impronta della moderazione, in molte città bosniache continuano le
manifestazioni di protesta contro la corruzione politica e la povertà in cui
langue la Bosnia, mentre va facendosi strada in molte località un esperimento
molto interessante chiamato “assemblee dei cittadini”. Queste ultime sono vere
e proprie assemblee pubbliche aperte a tutti, nelle quali si discutono problemi
comuni, si cerca di trovare una soluzione per una guida tecnica e non politica
delle città e dei cantoni e si fa la lista delle collusioni tra politica,
criminalità, business e magistratura, denunciando le operazioni economiche
illegali, gli arricchimenti criminali e le privatizzazioni sospette del fior
fiore delle imprese nazionali, tra quelle scampate alla guerra del 1992-1995.
Questo evidentemente
non piace alla politica ufficiale, quella accusata, prove alla mano, di aver
rubato e consegnato il Paese alle lobby e al crimine organizzato, nel totale
silenzio della comunità internazionale. Si susseguono dunque le accuse, anche
di carattere “etnico”, tra i vari raggruppamenti politici e i reciproci inviti
a dimettersi, mentre sono ben pochi quelli che compiono il fatidico passo,
liberando le istituzione dalla loro infausta presenza. Il momento forse più
comico e al contempo tragico lo si è avuto ieri, in materia, quando il ministro
dell’Interno, il populista tycoon Fahrudin Radončić, ha avuto il coraggio di
presentarsi in televisione dichiarando di avere a lungo avvertito i colleghi
politici che si sarebbe finito per provocare una protesta popolare, se non si
fosse cambiato atteggiamento. Radončić ha però omesso di spiegare che lui è uno
dei politici più discussi del panorama bosniaco e che le sue speculazioni
immobiliari – e non solo quelle – sono da tempo nel mirino dell’opinione
pubblica, stufa del padreternismo di certi personaggi sulla scena pubblica e
imprenditoriale bosniaca. L’intervistatore ha evidente omesso di ricordare
questo particolare non insignificante a Radončić, scoperchiando un’altra
pentola piena di vermi, oltre a quella della politica, delle banche e degli
affari, ovvero quella della stampa e della tv di proprietà dei tycoon o controllate
dalla politica, testate in cui è del tutto sconosciuto il concetto di libertà
di stampa e di critica, e in cui l’appiattimento sulle posizioni di chi
gestisce il potere è completo. Non va dimenticato, ad esempio, che lo stesso Radončić
è proprietario del più potente quotidiano della Bosnia Erzegovina, dettaglio
questo non indifferente. L’etica giornalistica non è stata brutalizzata solo in
Italia ma nei Balcani si è arrivati, negli ultimi anni, a livelli che per
fortuna sono ancora ignoti al nostro Paese (ma non è dato sapere ancora per
quanto tempo…).
Le
manifestazioni – è bene ripeterlo, di stampo non etnico – nel frattempo
continuano, anche se, per fortuna, non si segnalano più disordini e
danneggiamenti. L’auspicio è che il mondo non continui a voltare le spalle alle
Bosnia.