venerdì 17 ottobre 2014

"I bastardi di Sarajevo": le news che non dovete perdere e l'introduzione firmata Silvio Ziliotto

Con grande piacere, come promesso, lascio alla vostra lettura l'introduzione a I BASTARDI DI SARAJEVO firmata da Silvio Ziliotto, come ho fatto un paio di settimane fa con la prefazione firmata da Riccardo Noury.
La prossima settimana il libro uscirà in un migliaio di copie dal magazzino del distributore e arriverà nelle librerie. Questo accadrà più o meno in contemporanea con la "prima" del libro, sabato 25 ottobre a Milano presso la libreria Paoline, dove vi aspetto, spero numerosi. In coincidenza con quella che sarà l'uscita ufficiale del libro sarà un piacere regalare ai miei lettori anche il prologo de I BASTARDI DI SARAJEVO. Poi dal 24 ottobre in poi sono previste una serie di iniziative con alcuni preziosissimi partner on line per la promozione del libro. Vi racconterò tutto in presa diretta qui, sulla mia pagina Facebook (Luca Leone) e attraverso il mio account Twitter LeoneBiH, oltre che naturalmente su sito, blog, Fb e Twitter della Infinito edizioni. A breve sarà poi un piacere comunicarvi la lunga lista aggiornata di presentazioni, di cui quella di Milano sarà, appunto, solo la "prima".
Si torna in pista, insomma, e spero che gradirete la lettura de I BASTARDI DI SARAJEVO, che considero il mio libro più bello e importante. Così diverso dagli altri, tra l'altro.
L'anno prossimo, poi, avrete una sorpresa importante, alla quale sto lavorando in ogni singolo secondo libero insieme a un grande amico. Intanto, però, I BASTARDI DI SARAJEVO vi aspetta in libreria (a breve) e sul Web. E ha una gran voglia d'essere letto e, possibilmente, riletto. Perché una sola volta potrebbe non bastarvi. E potreste voler ricominciare subito per godervelo ancora meglio.
Buon fine settimana!


Introduzione
di Silvio Ziliotto
traduttore dal serbo-croato-bosniaco all’italiano ed esperto di letterature balcaniche

In questo libro si balla un valzer dicotomico tra i bastardi di Sarajevo, ovvero “i faccendieri, approfittatori, puttanieri, trafficanti di droga e d’esseri umani, mafiosi, affamatori, animatori del mercato nero, traditori, ladri, venduti, assassini prezzolati… una nutrita e numericamente minoritaria schiera d’appartenenti a un’umanità eticamente deforme e moralmente immonda che ha fatto fortuna grazie alle disgrazie dei loro concittadini e connazionali e, avendo trovato un invitante vuoto di potere, ci si è infilata occupando tutte le poltrone a dando vita a un nuovo assedio dopo quello bellico”, come li descrive il Professore, uno dei personaggi positivi di questa fictio (uso non casualmente il termine latino) terribilmente reale, e la gente normale vittima di povertà e ingiustizie che tuttora nella sua condizione rivive e paga ineluttabilmente le conseguenze del conflitto bosniaco.
L’autore crea un racconto che diviene presto specchio dei nostri difetti e delle nostre brame in un crogiuolo di topoi pushed up, ma terribilmente vicini alla realtà, che ci porta a pensare che forse quei bastardi di Sarajevo li abbiamo conosciuti, ne abbiamo riso o addirittura abbiamo riso con loro con quella complicità, magari involontaria ma non per questo incolpevole di chi, poi, se ne torna a casa al sicuro in una delle tanto vituperate democrazie europee.
La scrittura acre e tosta di Leone manda di morte e polvere da sparo e ci indirizza verso un’Ade balcanica senza ritorno e senza via d’uscita, ove la cartolina ridente della Bosnia Erzegovina e della pittoresca Sarajevo si scolora, accartoccia, annerisce, come buttata nelle braci ardenti del camino della Storia recente, per poi divenire velina nera e negativo evanescente che scompare in cenere.
Non riusciamo a capacitarci di quanto questa terra straordinaria che abbiamo nel cuore sia così disperata e sola nelle mani del malaffare più abbietto, che usa i giochi etnici come alibi perfetto per i suoi affari e i suoi intrighi di potere. Non comprendiamo, noi vittime del “mal di Bosnia”, come si può essere giunti così in basso ma, almeno da italiani, possiamo a fatica digerirlo consci di alcune similitudini che, purtroppo, non ci fanno essere così lontani dalla landa balcanica. A tal punto che Emina, un’altra protagonista del libro, potrà dire all’amico fotoreporter italiano, a proposito della stampa nostrana: “Eh, lui s’è informato…! Ma informato dove!? Sulla vostra stampa italiana provinciale superficiale e ignorante? Ma dai…! Me lo hai sempre detto anche tu che la stampa italiana è capace di far passare per un filo d’oro il pelo del culo di un asino… e viceversa”.
In un linguaggio spinto, a volte estremo, da spaghetti western re-revisited, e nel racconto serrato emergono, quasi un ossimoro, l’amore e l’interesse dell’Autore per questa terra e la rabbia di chi non si rassegna a tutto quello che accade e lo denuncia: attraverso lo strumento della finzione (ma si tratta di finzione?!?) letteraria infatti emergono il talento e la grinta di Leone, il suo mestiere di cronista che tanto ha dato in Srebrenica. I giorni della vergogna, il suo desiderio di raccontare per denunciare ma anche educare.

Ce lo hanno ribadito i nostri amici bosniaci svariate volte in Bosnia, in Italia e all’estero in generale, in pubblico e in privato sino all’esaurimento, ed ecco come il Professore esprime lo sconforto di un popolo che, per la gran parte mi permetto di asserire, vuole essere definito solo con una parola: bosniaco! E non con la lente deformata delle variegate definizioni delle divisioni etniche, comode prima delle elezioni e utili all’Europa e alle sue cancellerie, per semplificare e giustificare, all’epoca e ancor oggi, il suo tentennante mancato intervento.
Così dice quindi il Professore in questa sorta di mantra: “… Io non posso definirmi musulmano od ortodosso serbo o cattolico croato e nemmeno ebreo… la mia povera madre era croata, il mio severo padre musulmano, ma nella famiglia di mia madre c’erano dei serbi, come in quella di mio padre un’altra cattolica… io sono bosniaco… bosniaco senza trattini e senza aggiunte… senza aggettivi! Dunque per i politici locali e per i burocrati europei sono definibile statisticamente come ‘altro’, un ibrido velenoso! Ma io mi sento semplicemente bosniaco, (…) non mi sento affatto un fenomeno da baraccone…”.
Ma esiste un futuro per questa terra o l’unica speranza è migrarne? Esiste una possibilità di riscossa per un popolo apprezzato in tutti i Balcani, in primis da noi italiani, per l’ospitalità, l’autoironia simpatica e amara che a volte si tramuta in feroce sarcasmo, la voglia di far festa e vivere ogni momento della propria esistenza come se fosse l’ultimo?
Credo di sì e questa possibilità la vedo nei “filosofi” del libro, avvolti anch’essi dalla tragedia, ma dove l’Autore pare riporre speranza, speranza che ci auguriamo sia maggiore se questa opera molto cinematografica avrà un sequel.
Spero che la “nostra” Bosnia possa risollevarsi anche dopo la terribile alluvione del 2014 che non è riuscita a fagocitare le fosse comuni che emergono ancora dal suo suolo martoriato, ennesimo episodio che sconforta e amareggia, ma la Bosnia dei Divjak e dei Pejanović, e di tutti coloro che non hanno mai tradito l’idea di un Paese unito e multiculturale, deve potere vedere all’orizzonte l’Europa non più come una chimera, ma come futuro realizzabile nella grande e comune casa europea, a cui il popolo bosniaco appartiene di diritto, in virtù della sua cultura e della sua Storia.
Per ottenere questo risultato sarà necessario l’impegno di tutti, ognuno per quanto può e gli compete. In questo, cari amici bosniaci, non sarete mai soli: tanti italiani saranno al vostro fianco.