martedì 24 ottobre 2017

Caporetto 1917: fu resa o battaglia?


Ricorre il prossimo 24 ottobre il centenario della dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio conosciuta come battaglia o disfatta di Caporetto. Abbiamo chiesto allo storico Valerio Curcio, che ha curato l’introduzione al romanzo storico di Daniele Zanon Nina nella Grande Guerra, un commento sui fatti di quel giorno.

A cent’anni di distanza siamo ancora qua a discutere su cosa rappresentò veramente per il Regio Esercito Italiano quel che accadde dalla notte sul 24 ottobre 1917. L’episodio è noto in tanti modi, tutti coniugati al negativo, ancor oggi sinonimi di infausti presagi; rotta, disfatta, resa, disastro, catastrofe. In pochi hanno sentito parlare di battaglia di Caporetto. Probabilmente la sfumatura negativa si deve al revisionismo storico durante il ventennio fascista o al famoso bollettino di Cadorna nel quale si additavano i soldati italiani di viltà e tradimento, quali unici responsabili dei fatti accaduti.
In occasione del Centenario la discussione si è riaperta; oggi abbiamo a disposizione una gran mole di documenti che, nella maggior parte dei casi, si discosta in modo anche deciso dalla storiografia ufficiale, quest’ultima viziata dal revisionismo imposto durante il ventennio fascista.

Due nomi su tutti, due illustri generali, entrambi indicati come probabili successori del generalissimo Cadorna, animati da una profonda e reciproca gelosia nonché da un odio tale da sfociare nella più becera infedeltà. Parliamo di Luigi Capello e Pietro Badoglio, rispettivamente comandanti della Seconda Armata e del XXVII Corpo d’Armata (Settore dello sfondamento). Ecco la chiave di volta, loro la responsabilità di quanto accaduto.
E i soldati? Questi combatterono finché si poté, perché quando le munizioni finiscono e i rinforzi non arrivano il pensiero non può che andare ai propri cari, alla casa, alla terra. Tra morte certa e prigionia l’eroismo sbiadisce di colpo e la logica fa il resto. Abbiamo centinaia di testimonianze, confermate da altre indipendenti, che riscrivono totalmente la storia di quei giorni di Caporetto.
Sul Mrzli e sul Vodil il nemico viene continuamente respinto. I prigionieri nemici sono decine, a volte centinaia. Vengono portati in fondo valle, ma lì ci sono già i tedeschi.
Quando si resta a corto di munizioni si spara con l’artiglieria ad alzo zero: mossa della disperazione e alquanto inutile. Si legge di storie di difese estreme con lancio di pietre, o di episodi di pietà, come quella di due soldati italiani che corrono verso il fondovalle senza più munizioni inseguiti dagli ungheresi. I due non esitano a prestare soccorso al proprio comandante ferito al femore, quando lo incontrano durante la precipitosa fuga. Lo portano con loro fino a valle dove li attende la sorpresa più amara: non più il comando italiano, ma una marea di soldati tedeschi. La lotta è accanita sulla Bainsizza, nella stretta di Saga, sul Monte Rosso. Qui gli austrotedeschi sono ripetutamente respinti ma le munizioni scarseggiano. Fin dalle prime luci del 24 ottobre si susseguono richieste di rinforzi e munizioni. La prima risposta dal Comando giunge oltre dodici ore dopo, quando ormai il caposaldo è caduto in mano nemica.
Qualche minuto dopo i primi bombardamenti nemici i generali italiani sono già in fuga verso la piana friulana: prima a Cividale, poi a Udine. Le baracche dei comandi vengono bruciate, i documenti distrutti. Le staffette che dalle prime linee corrono ai comandi per riferire scoprono tutto ciò e si sentono traditi e spacciati.
Sul Carso gli italiani tengono testa, anzi zittiscono l’artiglieria nemica. Poi giunge l’ordine di ripiegare al di qua del Vallone, senza che i nostri ufficiali di linea ne capiscano il motivo. Non lo capiscono neanche gli austriaci, che davanti all’arretramento degli italiani restano, per nostra fortuna, ai loro posti, pensando a una trappola. Sì, perché il piano austrotedesco non prevedeva che un’azione limitata alla zona tra Tolmino e la stretta di Saga. Nella migliore delle ipotesi si pensava ad un respingimento degli italiani sulla linea dell’Isonzo, non certo fino al Tagliamento, figuriamoci fino al Piave.
Nessuna guerra è grande. Ad essere grandi sono solo gli errori, come quelli dei comandanti italiani, non certo di soldati-contadini strappati alla loro terra.