Ricorre il prossimo 24 ottobre il centenario della
dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio conosciuta come battaglia o disfatta
di Caporetto. Abbiamo chiesto allo storico Valerio Curcio, che ha curato
l’introduzione al romanzo storico di Daniele Zanon Nina nella Grande
Guerra, un commento sui fatti di quel giorno.
A cent’anni di distanza
siamo ancora qua a discutere su cosa rappresentò veramente per il Regio
Esercito Italiano quel che accadde dalla notte sul 24 ottobre 1917. L’episodio
è noto in tanti modi, tutti coniugati al negativo, ancor oggi sinonimi di
infausti presagi; rotta, disfatta, resa, disastro, catastrofe. In pochi hanno sentito
parlare di battaglia di Caporetto.
Probabilmente la sfumatura negativa si deve al revisionismo storico durante il
ventennio fascista o al famoso bollettino di Cadorna nel quale si additavano i
soldati italiani di viltà e tradimento, quali unici responsabili dei fatti
accaduti.
In occasione del Centenario
la discussione si è riaperta; oggi abbiamo a disposizione una gran mole di documenti
che, nella maggior parte dei casi, si discosta in modo anche deciso dalla
storiografia ufficiale, quest’ultima viziata dal revisionismo imposto durante
il ventennio fascista.
Due nomi su tutti, due
illustri generali, entrambi indicati come probabili successori del
generalissimo Cadorna, animati da una profonda e reciproca gelosia nonché da un
odio tale da sfociare nella più becera infedeltà. Parliamo di Luigi Capello e
Pietro Badoglio, rispettivamente comandanti della Seconda Armata e del XXVII
Corpo d’Armata (Settore dello sfondamento). Ecco la chiave di volta, loro la
responsabilità di quanto accaduto.
E i soldati? Questi
combatterono finché si poté, perché quando le munizioni finiscono e i rinforzi
non arrivano il pensiero non può che andare ai propri cari, alla casa, alla
terra. Tra morte certa e prigionia l’eroismo sbiadisce di colpo e la logica fa il
resto. Abbiamo centinaia di testimonianze, confermate da altre indipendenti,
che riscrivono totalmente la storia di quei giorni di Caporetto.
Sul Mrzli e sul Vodil il
nemico viene continuamente respinto. I prigionieri nemici sono decine, a volte
centinaia. Vengono portati in fondo valle, ma lì ci sono già i tedeschi.
Quando si resta a corto di
munizioni si spara con l’artiglieria ad alzo zero: mossa della disperazione e
alquanto inutile. Si legge di storie di difese estreme con lancio di pietre, o
di episodi di pietà, come quella di due soldati italiani che corrono verso il
fondovalle senza più munizioni inseguiti dagli ungheresi. I due non esitano a
prestare soccorso al proprio comandante ferito al femore, quando lo incontrano
durante la precipitosa fuga. Lo portano con loro fino a valle dove li attende
la sorpresa più amara: non più il comando italiano, ma una marea di soldati
tedeschi. La lotta è accanita sulla Bainsizza, nella stretta di Saga, sul Monte
Rosso. Qui gli austrotedeschi sono ripetutamente respinti ma le munizioni
scarseggiano. Fin dalle prime luci del 24 ottobre si susseguono richieste di
rinforzi e munizioni. La prima risposta dal Comando giunge oltre dodici ore
dopo, quando ormai il caposaldo è caduto in mano nemica.
Qualche minuto dopo i
primi bombardamenti nemici i generali italiani sono già in fuga verso la piana
friulana: prima a Cividale, poi a Udine. Le baracche dei comandi vengono
bruciate, i documenti distrutti. Le staffette che dalle prime linee corrono ai
comandi per riferire scoprono tutto ciò e si sentono traditi e spacciati.
Sul Carso gli italiani
tengono testa, anzi zittiscono l’artiglieria nemica. Poi giunge l’ordine di
ripiegare al di qua del Vallone, senza che i nostri ufficiali di linea ne
capiscano il motivo. Non lo capiscono neanche gli austriaci, che davanti
all’arretramento degli italiani restano, per nostra fortuna, ai loro posti,
pensando a una trappola. Sì, perché il piano austrotedesco non prevedeva che
un’azione limitata alla zona tra Tolmino e la stretta di Saga. Nella migliore
delle ipotesi si pensava ad un respingimento degli italiani sulla linea
dell’Isonzo, non certo fino al Tagliamento, figuriamoci fino al Piave.
Nessuna guerra è grande.
Ad essere grandi sono solo gli errori, come quelli dei comandanti italiani, non
certo di soldati-contadini strappati alla loro terra.