lunedì 27 giugno 2016

La guerra dei dieci giorni in Slovenia

26 giugno 1991 – Si accende la “Guerra dei dieci giorni”. La Jna decide d’intervenire in Slovenia per preservare l’unità nazionale, di cui è depositaria. Alle 7,20, con un telegramma del generale sloveno Kolšek, lo Stato maggiore jugoslavo lancia l’Operazione Baluardo per restaurare l’ordine e riprendere il controllo dei posti di frontiera con Austria e Italia. L’Armata popolare o Armata federale rappresenta una specie di settima repubblica, il 96% degli ufficiali aderisce alla Lega dei comunisti, status necessario per ambire al grado superiore a quello di tenente. Alcune unità lasciano le caserme di Fiume per dirigersi verso il confine sloveno-italiano. I vertici dell’Armata mobilitano truppe e carri armati anche da Karlovac e da altre zone della Croazia, nella convinzione che una guerra-lampo possa risolvere la questione. Molti ufficiali sloveni si rifiutano di eseguire gli ordini impartiti da Belgrado e sono destituiti. I movimenti di mezzi provocano una forte reazione degli sloveni, che organizzano barricate e dimostrazioni contro le azioni della Jna. Non ci sono combattimenti, sembra che entrambe le parti adottino la politica di non essere i primi ad aprire il fuoco.
Il governo federale da Belgrado denuncia l’azione illegale delle repubbliche secessioniste e che non avrà nessun seguito perché la Jna assicurerà le frontiere interne ed esterne del Paese. Il governo sloveno mette in atto il piano per assumere il controllo delle dogane e prendere l’aeroporto internazionale di Brnik. Il personale ai posti di confine è già composto nella maggior parte dei casi da sloveni e l’occupazione è molto semplice, risolvendosi in un cambio di uniformi e di cartelli.
Mentre tutta l’attenzione è puntata sulla Slovenia, četnici serbi attaccano la stazione di polizia di Glina, nella Banjia croata, a sud di Zagabria. Prima che i croati possano abbozzare un contrattacco si muovono da Petrinja i carri armati federali e creano un cuscinetto attorno a Glina col pretesto di prevenire nuovi scontri. Una bandiera bianco-rossa croata continua a sventolare sul commissariato, quella bandiera per i serbi è un simbolo ustaša. L’odio dei serbi in quella zona è forte, a Glina, durante la seconda guerra mondiale vi è stato il massacro di centinaia di serbi prima convertiti a forza, poi sgozzati sul sagrato della chiesa dagli ustaša: la carneficina deve essere vendicata, anche se sono passati cinquant’anni.
27 giugno 1991 – Una colonna di blindati federali esce dalla caserma di Vrhnica, 15 chilometri da Lubiana, dirigendosi verso l’aeroporto di Brnik. Unità della Jna lasciano Maribor dirette verso il vicino posto di confine di Šentilj e la città di Dravograd. Il comando della V Regione militare è in contatto telefonico con il presidente sloveno Kučan, informandolo che la missione delle truppe è limitata a occupare i posti di dogana e l’aeroporto. In una riunione di emergenza della presidenza slovena, Kučan e il resto dei membri optano per la resistenza armata. Iniziano gli scontri tra l’Armata popolare e la Difesa territoriale slovena, la Teritorialna obramba (To), erede dell’esercito parallelo voluto da Tito dopo l’invasione sovietica di Praga. A Lubiana entra in vigore il coprifuoco. È battaglia all’aeroporto di Brnik, nei pressi di Lubiana, dove si registra l’abbattimento di due elicotteri federali. Uno dei piloti morti è sloveno.

Nella cittadina di Trzin, non lontano dalla neo-capitale, si scatena una battaglia, nel corso della quale quattro soldati della Jna e uno della To rimangono uccisi; l’unità federale è costretta ad arrendersi.
Seguendo l’ordine di mantenere l’integrità dello Stato jugoslavo, soldati federali occupano i valichi di confine. A Maribor, i carri armati federali intervengono per rimuovere gli improvvisati blocchi stradali nel centro della città.
L’aviazione jugoslava effettua un lancio di volantini con messaggi inter­locutori: “Vi invitiamo alla pace e alla cooperazione – Ogni resistenza sarà schiacciata”. La Teritorialna obramba slovena pone sotto assedio varie alle caserme della Jna.
Attacchi contro carri armati federali vicino Maribor, a Ormož e nei pressi di Ilirska Bistrica. Nonostante la confusione e i combattimenti, la Jna riesce a completare la propria missione: verso mezzanotte assume il controllo di quasi tutte le dogane. Si avvicina un altro Vivodan, un giorno sempre importante nella storia dei popoli slavi.
28 giugno 1991 – Nella notte è ordinato alle truppe della To slovena d’intraprendere un’offensiva contro la Jna. Il ministro della Difesa sloveno ordina: “In tutti i posti in cui le forze armate della Repubblica di Slovenia hanno il vantaggio tattico, verranno intraprese azioni offensive contro le unità e le strutture nemiche. Al nemico verrà chiesta la resa, verrà data la scadenza più breve possibile per la resa e intrapresa l’azione offensiva con tutto l’arsenale di­sponibile. Durante le azioni sarà organizzata l’evacuazione e la protezione dei civili”.
Le colonne jugoslave sono bloccate da improvvisate barricate di ca­mion a Strihovec, vicino al confine con l’Austria, e colpite dai membri della Teritorialna e della polizia slovena.
L’aviazione federale attua due incursioni in aiuto delle forze bloccate a Strihovec, uccidendo quattro camionisti. A Medvedjek, Slovenia centrale, una colonna jugoslava si ritrova sotto attacco e i raid dell’aviazione federale uccidono sei camionisti. Sparatorie ai valichi italo-jugoslavi. A Fernetti si spara, come al valico della Casa Rossa-Rožna Dolina di Gorizia, teatro di una brillante operazione della To che attacca i soldati federali, distruggendo due carri T–55. Il bilancio per la Jna è pesante: quattro militari caduti, 16 feriti e 98 prigionieri; tra gli attaccanti nessuna perdita. Gli sloveni s’impadroniscono di tre carri armati, vari automezzi e molte armi. Due MiG sorvolano Trieste e mitragliano il valico di Skofije. L’aviazione federale attacca l’aeroporto di Brnik, quattro aerei di linea della Adria Airways, la neonata compagnia di bandiera slovena, sono gravemente danneggiati. Attacchi aerei al quartier generale sloveno, ai trasmettitori radio-televisivi per impedire le trasmissioni del governo sloveno al valico con l’Austria di Ljubelj, dove sono uccisi ignari autisti di tir in attesa. Il posto di confine di Holmec è catturato dalle forze slovene, con due morti sloveni e uno della Jna, 91 soldati jugoslavi catturati. Un deposito di armi federale cade in mani slovene, aumentando significativamente la disponibilità di armi delle forze slovene.
Primi morti tra gli inviati. Due fotografi austriaci, Norbert Werner e Nikola Vogel, riescono a introdursi con la loro jeep nel recinto dello scalo di Brnik, l’aeroporto di Lubiana, occupato dagli uomini dell’aeronautica jugoslava, ma accerchiato dai militari della Difesa territoriale. Trovano la morte spazzati via da un missile, non si saprà mai se sparato dagli sloveni o dai federali.
Sono i primi caduti dell’informazione in una guerra che vedrà morire molti altri giornalisti.
Alla fine della giornata la Jna tiene molte delle proprie posizioni, ma sta perdendo rapidamente terreno. La flessibilità e il pragmatismo degli sloveni la mettono in seria difficoltà, psicologicamente impreparata, priva di artiglieria e per l’eccesso di fiducia dei suoi vertici, che non hanno previsto un servizio logistico, consegnando ai soldati razioni solo per un giorno. Molti soldati federali sono impreparati a una guerra quasi di guerriglia, senza appoggio da parte della popolazione. Aumentano i casi di diserzione, centinaia di membri sloveni della Jna abbandonano le proprie unità o cambiano fronte. I generali della Jna sottovalutano la presenza a Lubiana di oltre 300 giornalisti stranieri e di molte troupe televisive, che documentano quanto accade.
Intanto a Bosansko Grahovo, in Bosnia, non lontano da Knin, si riuniscono i rappresentanti serbi delle comunità di Bosnia e Croazia per decidere l’unificazione delle varie entità.
29 giugno 1991 – Significativo attacco delle forze slovene a Vrtojba-Sant’Andrea, importante valico alla periferia di Gorizia, dove il distaccamento della Jna è forte di 138 soldati e nove carri T–55. Trattative preventive per evitare perdite portano alla resa dei federali senza che sia sparato un solo colpo. Oltre ai carri, la To acquisisce forti quantitativi di munizioni e di armamenti. Altri morti a Rabuiese, il valico confinario da Trieste verso l’Istria, dove un blindato della Jna tenta di forzare il blocco attorno al posto di confine, gli sloveni reagiscono e restano uccisi un tenente e due soldati jugoslavi.
In Slavonia, con un tentativo dei četnici di occupare Osijek e Vinkovci, iniziano le ostilità. Respinti i serbi dai difensori croati, le truppe federali aprono il fuoco sulla città dalle caserme di Osijek.
A Belgrado è rinviata la riunione della presidenza collegiale che, secondo gli accordi con la Cee, deve eleggere il croato Mesić, rimasto solo apparentemente un convinto jugoslavista. In serata, all’insaputa del governo federale, arriva l’ultimatum alla Slovenia da parte del generale Negovanović dello Stato maggiore dell’esercito: “Se l’ultimatum verrà ignorato, le forze armate metteranno in stato d’allerta tutte le loro unità”. L’esercito federale intima alla Slovenia di porre fine a ogni azione ostile contro le truppe di Belgrado, altrimenti scatte­rà contro la repubblica ribelle un’azione militare decisiva. L’ultimatum, pronunciato alla tv jugoslava, è l’ultimo avvertimento.
Congedato il comandante dell’aviazione federale Anton Tus, sostituito da un altro croato, Jurjević.
La troika della Cee, i ministri degli Esteri di Lussemburgo, Paesi Bassi e Italia, si reca in Jugoslavia, tentando di convincere i popoli della Federazione a costruire insieme la democrazia nel rispetto dei diritti civili. È la notte dei tentativi di pace, ma nessuno vuole cedere. La necessità di restare uniti è sostenuta specialmente dal ministro italiano De Michelis nel corso dei numerosi viaggi a Lubiana e Zagabria.
30 giugno 1991– In tv riaffiorano gli schemi della seconda guerra mondiale: i serbi accusano gli sloveni di fascismo, gli sloveni replicano, accusando la Jna d’essere un occupante come lo erano i nazisti. Le forze slovene occupano il tunnel strategico di Karawanken, al confine con l’Austria. L’intera guarnigione della Jna di stanza a Dravograd, nella Slovenia settentrionale, 16 ufficiali e 400 uomini, si arrende, come le guarnigioni di Tolmino e Plezzo. Le armi catturate sono subito redistribuite alle forze slovene. Il ministro della Difesa federale, generale Kadijević, mette il vertice della Narodna armija davanti al bivio: o ritiro dalla Slovenia oppure occupazione dura. Allarme aereo a Lubiana, i MiG sorvolano tutta la Croazia e la Slovenia, ma non accade nulla di rilevante. Il premier Marković va a Lubiana, forse si apre uno spiraglio di pace.
1° luglio – Un carico di munizioni della Jna a Črni Vrh–Montenero d’I­dria è distrutto da un’esplosione, danneggiando parte del paese. Una co­lonna della Jna si ritira dalla posizione troppo esposta di Medvedjek e si dirige vicino al confine croato. Incappa in un blocco vicino a Krško ed è circondata, ma rifiuta di arrendersi, probabilmente sperando nell’aiuto di una colonna di soccorso.
Il ministro della Difesa Kadijević informa il governo federale che il piano della Jna, un’operazione limitata a controllare i punti di confine della Slove­nia, è fallito. È il momento di mettere in atto il “piano B”: un’invasione su ampia scala, la proclamazione della legge marziale e l’arresto di tutti i dirigenti sloveni. Jović pone il veto al “piano B”, affermando: “Mi è chiaro che la Slove­nia se ne va ed è inutile scatenare una guerra. Ci resta una sola cosa da fare, di­fendere i territori abitati dai serbi di Croazia, che vogliono restare in Jugoslavia”.
Il capo di Stato maggiore della Jna, generale Adžić, è furioso e dichiara: “Gli organi federali ci ostacolano di continuo, richiedendo dei negoziati mentre gli sloveni ci stanno attaccando con tutti i mezzi”. L’esercito registra defezioni a migliaia, ognuno rientra nelle rispettive repubbliche, la Narodna armija sembra allo sbando, sconfitta sul suo campo fondante: la multietnicità.
Grazie alla mediazione della trojka Cee, il croato Mesić diventa presidente della Federazione jugoslava. La Jna dovrebbe rientrare nelle caserme, i pri­gionieri rilasciati, le frontiere riaperte, ma nessuno si fida dell’altro.
Appello del Gruppo di donne di Belgrado contro la guerra in Slovenia: chiedono che l’esercito federale si ritiri immediatamente e i soldati tornino a casa. Genitori, per la maggior parte madri, dei soldati di leva dell’Armata federale invadono il parlamento a Belgrado per protesta contro la mobilita­zione dei figli, contro una guerra fratricida e per il ritorno dei loro figli che prestano servizio in Slovenia.
2 luglio – Un giorno disastroso per la Jna. La colonna di carri armati, inviata per liberare il reparto bloccato vicino a Krško, si ritrova sotto attacco di unità slovene, che la costringono alla resa. La Teritorialna slovena attacca con successo le varie dogane, facendo prigionieri un buon numero di soldati federali. Duri combattimenti a Fernetti, il più importante valico tra Italia e Slovenia: non ci sono vittime. Negli scontri tra To slovena e Jna sono coin­volti camionisti stranieri di passaggio.
Un MiG supera il muro del suono sulla verticale di Lubiana, la contrae­rea spara. In realtà non vi è nessun attacco, ma i giornali di tutto il mondo titolano Allarme aereo a Lubiana: esempio di simulazione di guerra a fini mediatici. Altri carri armati entrano in Slovenia, provenendo dalla Croazia. Prove di forza dei carri federali all’uscita dalle caserme croate.
Alle 21,00, il presidente sloveno annuncia un cessate-il-fuoco unilaterale, respinto dal comando della Jna, che giura di “riprendere il controllo” e di “abbattere la resistenza” slovena. La Jna non accetta la sconfitta sul campo. Il generale Adžić, serbo, un “falco”, tenta un colpo di coda e, scavalcando il Presidium, dichiara: “L’Armata federale si ritiene in stato di guerra”, accu­sando di alto tradimento i dirigenti sloveni, meritevoli di una punizione: “Staneremo dai loro nascondigli quelli che spingono la Slovenia contro la Jugo­slavia”. Lo sloveno Kolšek è destituito per “incapacità”. I soldati federali in partenza per la Slovenia sono salutati con giubilo dalla popolazione serba, le donne offrono acqua, le ragazze mandano baci. Solo l’arrivo di osservatori internazionali potrebbe garantire una tregua.
3 luglio – Un grosso convoglio della Jna si mette in marcia da Belgrado, apparentemente verso la Slovenia. Non vi arrivò mai, secondo fonti ufficiali a causa di problemi meccanici. I combattimenti continuano in Slovenia, mentre una forza di soccorso della Jna, diretta al punto di confine con l’Au­stria di Gornja Radgona, è bloccata vicino a Radenci. In serata la Jna si ac­corda per un vero cessate-il-fuoco e il ritiro verso le proprie caserme. Il gene­rale Adžić in un proclama televisivo tuona contro i nemici della Jugoslavia, contro i traditori che sono nelle stesse “nostre fila”, contro chi “non capisce che siamo in guerra con gente che odia la Jugoslavia, mentre noi la amiamo” e ribadisce che intende dare un colpo decisivo alla Milizia territoriale slovena.
Respinta dall’Armata federale la mediazione di Mesić, che è anche capo del­le forze armate. È in corso un vero e proprio braccio di ferro col capo di Stato maggiore Adžić, che fa affluire verso la Slovenia nuove truppe e altri tank: in tutto sono mobilitati 500 carri armati sui circa 2.000 in possesso della Jna, ma la maggior parte rimane in Croazia e Bosnia. Una colonna di carri, uscendo dalla caserma Tito di Zagabria, travolge manifestanti croati, provocando alcu­ni morti. A Osijek, in Slavonia, i tank schiacciano decine di auto nelle vie del centro, dimostrando una brutalità gratuita che suscita forti proteste.
L’incertezza regna sovrana con notizie confuse e contraddittorie. Il generale Adžić rincara le minacce, accusando gli sloveni di essere “ipocriti e senza scrupoli” e di avvalersi della complicità dell’Austria per il controllo delle frontiere, ma ormai è più patetico che minaccioso, tanto che l’Armata federale in serata fa rientrare parte dei cingolati. La tregua regge a partire dalle 21,00.
I rappresentanti vaticani presso la Csce dichiarano, a proposito dell’unità della Jugoslavia, che tale unità dipende dall’adesione a valori comuni, men­tre va esclusa un’unità che non fosse altro che il risultato dell’azione delle forze armate: “Non è possibile e non si devono pertanto soffocare i diritti e le legittime aspirazioni dei popoli”.
4 luglio – Con il cessate-il-fuoco in atto, i due fronti si disimpegnano. Le forze slovene prendono il controllo di tutti i posti di dogana ed è permesso alle unità della Jna di ritirarsi nelle proprie caserme o ripassare il confine con la Croazia. La presidenza federale ordina il ritorno alla normalità con la liberazione dei prigionieri, la smobilitazione delle milizie armate, la nor­malizzazione delle comunicazioni, secondo la mediazione della troika della Cee. Disposizioni difficilmente applicabili in tempi brevi.
Missione delle “madri coraggio” da Belgrado a Lubiana per soccorrere le reclute assediate nelle caserme in territorio sloveno. In realtà si tratta di una manovra diversiva della Jna per uscire dall’isolamento, per mascherare le umi­liazioni, ma giova anche alla Slovenia per raffreddare la situazione. Il vice-pre­sidente del parlamento serbo Obrodović, che accompagna i genitori, davanti al divieto imposto dagli ufficiali all’incontro con le reclute, afferma: “Le madri non sono qui per fare politica, ma per vedere i figli”, sbloccando la situazione.
Un giornalista francese parla dell’esistenza di un “piano Bedem ‘91” stret­tamente confidenziale mirato contro i “nemici interni” delle repubbliche secessioniste, ma anche contro un eventuale intervento Nato a sostegno di Slovenia e Croazia, legato a vecchi piani segreti dell’epoca di Tito.
5 luglio – I ministri degli Esteri dei dodici Paesi della Comunità europea si riuniscono a L’Aja, dove emergono le prime divergenze. Germania, Belgio e Danimarca propongono il riconoscimento di Croazia e Slovenia; gli altri, in particolare la Francia, sono contrari. La decisione comune prevede il con­gelamento del sostanzioso aiuto finanziario che la Cee aveva promesso alla Jugoslavia e l’imposizione di un embargo sull’importazione di armi, letto da più parti come un tentativo di favorire l’Armata federale. Alla tv di Belgrado appare un delirante Šešelj: “Sgozzare i croati non con il coltello, ma col cucchiaio arrugginito…”. Reazioni sdegnate degli intellettuali serbi riuniti nel Circolo di Belgrado. Gli sloveni consegnano alla Croce rossa 2.400 prigionieri, ma mon­tano “cavalli di frisia” anticarro lungo le vie di accesso alle caserme della Jna.
6 luglio – Fine delle operazioni militari in Slovenia. Sono stati “dieci giorni di guerra”.
19 luglio – Ufficializzato il ritiro dell’Armata federale dal territorio slove­no. Secondo dati diffusi dal governo di Lubiana, la “Guerra dei dieci giorni” ha provocato la morte di 74 soldati e di 280 feriti. Dei 25.000 soldati fede­rali di stanza in Slovenia, quasi 8.000 disertarono. Nonostante il buco di bi­lancio provocato dai danni, il governo di Lubiana si preoccupa di rifocillare i soldati federali rimasti isolati, fornirli di biglietto ferroviario e rispedirli a casa. A Zagabria arrivano 45 osservatori della Cee.