Ventidue anni fa, davanti agli occhi del mondo – colpevolmente indifferente – cadeva nelle
mani del generale
Mladić e dei suoi uomini la cittadina di Srebrenica, dopo un assedio
durato tre anni. Ripercorriamo il
giorno chiave grazie al lavoro di ricostruzione storica che è il cuore del
volume Srebrenica.
I giorni della vergogna (Infinito edizioni).
Martedì 11 luglio
1995
Alle 6,00 del
mattino la popolazione si è già riversata nelle strade devastate, in attesa. Al
rumore dei motori degli aerei della Nato non segue il tanto atteso boato delle
bombe. Perché? Alle 9,00 il colonnello olandese ammette davanti ai
rappresentanti della comunità che la sua richiesta d’appoggio aereo è stata
considerata sottoposta in modo non conforme al regolamento. In volo da ormai
più di quattro ore, gli aerei sono in riserva e devono rientrare in Italia, ad
Aviano, da dove sono partiti. Intorno alle 10,30 l’artiglieria serba ricomincia
a vomitare fuoco sulla città. Karremans informa il comando, ma alle 11,00 il
generale Janvier ancora esita a capacitarsi del fatto che i serbo-bosniaci
stiano sferrando l’attacco finale. La gente di Srebrenica è tutta in strada, in
trappola. La città sta per cadere e gli uomini sanno che i primi a subirne le
conseguenze saranno loro. In molti decidono di separarsi dalle famiglie che, in
fin dei conti, restano “al sicuro” con gli olandesi dal casco blu.
Lo stesso
Karremans, secondo molti testimoni, invita gli uomini a prendere la via del
bosco per cercare di sfuggire alla vendetta degli assedianti, accecati dalle
esecuzioni sommarie effettuate dalle forze musulmane nei tre anni precedenti in
una cinquantina di villaggi nei dintorni di Srebrenica, dall’alcol, dalla
droga, dalle menzogne propagandistiche e dalla promessa di bottino. Tra le
12.000 e le 15.000 persone, in gran parte uomini (che costituiranno la cosiddetta
colonna
mista),
scelgono di prendere la strada delle montagne, che passa attraverso i boschi
per arrivare, dopo una roulette russa di una cinquantina di
chilometri di campi minati, dirupi, sterpi e cannonate, a Tuzla, nel territorio
controllato dal governo bosniaco, definito territorio libero. Sarà in
seguito ribattezzata, questa, la Marcia della morte. Almeno
20.000, più probabilmente 25.000, tra donne, bambini, feriti e malati fuggono
invece a piedi verso la lontana base olandese di Potočari. I sopravvissuti
ricordano quella giornata come un inferno in terra, anche per la temperatura,
già a quell’ora vicina ai 35 gradi centigradi.
Alle 12,05 il
generale Janvier autorizza l’intervento aereo. Alle 14,40 – più di due ore e
mezza dopo – due F16
olandesi
sparano altrettanti missili sulle postazioni serbe. Si odono due deflagrazioni,
due tank
centrati,
poi più nulla: così si esaurisce la risposta della comunità internazionale
contro la violazione della Risoluzione 819. Gli assedianti intensificano il
cannoneggiamento della città e minacciano di uccidere gli ostaggi olandesi
oltre che di sparare sugli sfollati inermi. Dall’esterno, da quel momento in
poi, non sarebbe più arrivato alcun aiuto ai dannati di Srebrenica. Gli
olandesi non reagiscono, non sparano neppure un colpo: in compenso, caricano su
qualche camion bianco con la scritta UN i feriti e le donne con i bambini
piccoli, qualche anziano, e velocizzano l’evacuazione verso il compound di Potočari.
Alcuni malati saranno persino “dimenticati” in ospedale.
Alle 16,15 il
generale Mladić, comodamente seduto su una jeep, aggiustandosi
i capelli tagliati di recente entra a Srebrenica e proclama ufficialmente la
conquista della città. Da quel momento in poi qualsiasi azione di stampo
propagandistico sarà ripresa dalla troupe televisiva che
il carnefice serbo-bosniaco porta sempre con sé. (…)
Il generale
fissa l’obiettivo, poi espone con fermezza il suo breve discorso, che legge da
un foglio che regge in mano. La telecamera inquadra solo il grosso ovale del
viso da fiera, il collo e un accenno delle spalle. Il viso è arcigno ma
disteso, il sorriso con difficoltà rimane sotto le gote rubiconde; i capelli,
brizzolati e ben pettinati, sono quelli di una star hollywoodiana.
Una stella
sanguinaria: «Siamo qui, l’11 luglio 1995, nella Srebrenica serba […]. Abbiamo
dato questa città alla Nazione Serba. Ricordando la rivolta contro i turchi, è
arrivato il momento di prendere la nostra vendetta contro i Musulmani». Si
volta a sinistra e se ne va. La telecamera continua a inquadrare il vecchio
camion bianco fermo in lontananza, sotto un palazzo sul cui tetto campeggia
un’insegna che reca il nome della città caduta.
Alla base di
Potočari, nel frattempo, continuano ad arrivare i fuggiaschi: stanchi,
assetati, disperati. Alle 16,30 i caschi blu olandesi decidono di considerare la
base piena. Gli ufficiali mandati da Amsterdam convocano gli interpreti e li
istruiscono: devono dire alle migliaia di persone che ancora stanno affluendo
che il compound
è
chiuso e sarebbero potute entrare solo madri con bambini piccoli e donne
incinte. La gente è incredula. Rimangono fuori dalla base circa 20.000 persone,
che cercano riparo nelle immediate vicinanze: all’interno trovano rifugio solo
circa 5.000 sfollati.
Nella
“Srebrenica serba” uno Mladić raggiante incita i suoi a non fermarsi nella
deserta città ma a continuare fino a Potočari: intorno alle 16,45 i
serbo-bosniaci, armati fino ai denti, ubriachi, drogati, inebriati dal sangue e
dalla vittoria, si presentano al cancello della base Onu. Non ci sono solo i soldati
di Mladić; con loro camminano fianco a fianco i criminali prezzolati di Arkan e
i serbi ultranazionalisti di Šešelj, con i cani al guinzaglio. Ancora una
volta, sono le telecamere serbe a svolgere un lavoro di testimonianza per il
resto del mondo, facendo diventare denuncia la propaganda: ecco i volti
terrorizzati dei caschi blu olandesi (un uomo e una donna) al cancello fatto di
pali e rete metallica; ecco i “guerrieri” di Mladić, spavaldi, girare intorno
alla base olandese terrorizzando con la loro sola presenza gli sfollati.
Le telecamere
indugiano, i bambini piangono, un bimbo musulmano ha lo sguardo perso nel vuoto
e tiene stretto in braccio il piccolo coniglio bianco con cui si è messo in
salvo, immobile compagno di un assedio che nessuno dei due è in grado di
capire, motivare. Gli olandesi se ne stanno fermi, impietriti, con le mani sui
fianchi, in piedi al di là della rete oltre la quale gli zoom delle
telecamere serbe spadroneggiano. (…)
La notte,
raccontano i testimoni che la vissero, è fredda – anche a causa dello stress della giornata
e della mancanza di cibo, acqua, vestiti asciutti – e popolata dai fantasmi
dell’imminente tragedia. E di altri arrivi; alcuni alla spicciolata, altri di
gruppi anche consistenti di persone che, solo all’ultimo momento, nei villaggi
più isolati dei dintorni di Srebrenica, hanno saputo della capitolazione della
città e sono dovuti fuggire dalle loro case. Intorno alle 23,30 di
quell’interminabile 11 luglio Karremans incontra nuovamente Mladić in compagnia
di un maestro locale, Nesib Mandžić, il viso affranto e una giacca scura.
Ancora una volta, la scena è riempita dal generale serbo-bosniaco, nel più
tragico reality
show mai
concepito da mente umana. «Ti prego di scrivere. – attacca il generale, questa
volta in scena di profilo, parlando con il malcapitato maestro – Dovete
consegnare le vostre armi e tutti coloro che ne fanno uso. Io garantisco per le
loro vite. Lo hai capito? Nesib, il futuro della tua gente è nelle tue mani.
Non solo in quest’area. Ho finito. Siete liberi di andare». Karremans finisce
di annotare, piega il suo foglietto ed è pronto ad andare via. Gli ufficiali
serbo-bosniaci hanno già obbedito all’ordine del capo e hanno cominciato ad
alzarsi dalle sedie. Il giovane maestro esita: «Glielo dico onestamente. Io
sono qui per caso come rappresentante e non posso essere responsabile…» «Questo
è un tuo problema. Voi dovete consegnare le armi e salvare la vostra
popolazione dalla distruzione!», replica Mladić. Nesib non può. Gli olandesi
tacciono.