Ventiduesimo
anniversario del genocidio di Srebrenica. Le grancasse dei negazionisti suonano
a tutta forza. Nessuna traccia di quell’immateriale facoltà nota come
coscienza. Non pervenuti neppure vergogna e senso del limite.
L’11
luglio 2017 saranno solo 71 i poveri resti di vittime del genocidio sepolti nel
Memoriale di Potočari. Nel 2016 erano stati 127, che avevano portato a 6.504 i
corpi sepolti. All’appello mancano ancora circa 4.000 corpi. Ormai il lavoro di
riconoscimento delle vittime è sempre più lungo e difficile. I resti dei 71
sepolti di domani sono stati ritrovati in trenta diverse fosse comuni, alcune
delle quali secondarie.
Per
la prima volta sarà presente una delegazione di tre parlamentari macedoni.
Nulla invece, come di consueto, dalla patria del negazionismo, Banja Luka, e
dalla sua gemella Belgrado. Anzi, il nuovo presidente Alexandar Vučić,
ultranazionalista prestato per necessità alla causa del “moderatismo”, sarà
addirittura in visita in Turchia, per incontrarsi con un altro “paladino” della
giustizia e dei diritti umani, il suo omologo Recep Tayyip Erdoğan. Pecunia non olet, il denaro non ha
odore. Almeno non a certi livelli. Come noto, né Banja Luka né Belgrado hanno
mai riconosciuto il genocidio di Srebrenica, come Ankara non ha mai
riconosciuto quello degli armeni. Per non parlare di chi oggi ancora non
riconosce l’Olocausto – o di chi l’Olocausto lo ha subìto ma non riconosce
Srebrenica, perché appunto pecunia non
olet e gli interessi della Repubblica serba di Bosnia in Israele sono
sempre più forti, come il giro annuo di soldi. Unico colpo, quello battuto da
Belgrado dalla biografa – ma sarebbe meglio scrivere agiografa – di Radovan
Karadžić e di Ratko Mladić, che avrebbe voluto presentare a Srebrenica, nella
casa della cultura, proprio l’11 luglio, il suo nuovo libro, nel quale i suoi
due eroi di cui sopra vengono glorificati e già assisi in cielo, nonostante
siano ancora tra noi, per quanto almeno al momento in galera (Karadžić
condannato solo a quarant’anni, Mladić in attesa di sentenza di primo grado). L’agiografa
di cui sopra si chiama Ljiljana Bulatović. Magari qualche compiacente editore italiano che la
traduca sarà disponibile a dare voce a questa nuova fanfara della negazione e
della mistificazione. Stando a chi ha letto il libro, tra l’altro, la signora
consiglierebbe di riesumare le bare delle vittime del genocidio e di spostarle
da qualche altra parte nel territorio della Federazione di Bosnia Erzegovina,
così da lasciare il terreno su cui sorge il Memoriale di Potočari a usi
agricoli… Magari la signora dovrebbe fare un giro per la Repubblica serba di
Bosnia: scoprirebbe che sono migliaia e migliaia gli ettari di terreno incolto
a causa dell’incapacità – o forse della spudorata volontà – del governo
serbo-bosniaco di investire per creare posti di lavoro o magari anche solo di
garantire crediti all’agricoltura per meccanizzarla. Ma Dodik i soldi li usa in
altri modi.
Unica
buona notizia – per ora, ma poi vedremo in futuro – giunge dal municipio di Srebrenica,
dove il giovane sindaco negazionista e ultranazionalista serbo-bosniaco ha
negato a un’associazione di reduci serbo-bosniaci di posare nel giardinetto
davanti alla sede comunale una statua raffigurante l’ex ambasciatore russo all’Onu,
il defunto Vitaly Churkin, noto alle cronache nel 2015 per essersi opposto all’approvazione
di una risoluzione di riconoscimento del genocidio di Srebrenica in seno al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, presentata dalla Gran Bretagna. Sono
due anni che gli estremisti serbo-bosniaci insistono in materia, corroborati
nelle loro richieste anche dalla vergognosa installazione di una croce altra
cinque metri e mezzo e pesante 400 chili su una delle alture che dominano Višegrad,
il cui scopo è quello di celebrare i paramilitari russi morti in loco. Secondo
il sindaco Mladen Grujčić è meglio non “versare olio sul fuoco”. A volte anche
tra gli ultranazionalisti si alza una voce capace di dire qualcosa di senso
compiuto… Varrà la pena di ricordare che i paramilitari russi sono stati attivi
anche a Srebrenica, dove però, oltre a quelli serbi, il grosso del lavoro
sporco è stato compiuto dai paramilitari greci. Di loro non si parla mai.
Varrebbe invece la pena farlo, perché quei cittadini dell’Unione europea hanno
partecipato in prima persona a un genocidio: quello di Srebrenica.