mercoledì 9 dicembre 2015

Due ore e mezzo alla Stazione Termini in stato d’assedio e l’italiano medio

Piccola vedetta ferroviaria a causa di un errore di calcolo nella partenza e di un appuntamento saltato. La mia tarda mattinata romana – l’ultima per molto tempo – si complica improvvisamente. Troppo tardi per sentire qualsiasi amico romano. Ma anche troppo stanco, sfibrato, appesantito, dopo cinque giorni di fiera del libro, per poter pensare di intavolare con chicchessia una discussione mediamente interessante (per l’interlocutore). Decido allora di andare incontro al destino. Sarà quel che sarà.
Alle 12,20 salgo sulla Metro B ala stazione di Eur Fermi, direzione Jonio, destinazione Termini. All’ingresso della metro due militari armati di fucile mitragliatore, in mimetica. Giovani, sguardo duro. Tranne quando c’è da seguire un bel sedere femminile. Timbro il biglietto. La mia metropolitana arriva subito, insieme a quella con destinazione Laurentina, sul binario prospiciente. In un attimo, dalla parte opposta della banchina, un ragazzotto probabilmente nordafricano, poco più che maggiorenne, cicca accesa in bocca, si guarda intorno furtivo, salta il tornello e s’infila in uno dei vagoni del convoglio. Dall’altra parte non ci sono militari? E se c’erano, guardavano sederi? Comunque, meglio far prendere loro aria e sole che tenerli sull’attenti in caserma, avrà pensato qualcuno.
A Termini devo aspettare oltre due ore prima di prendere il mio treno per Napoli Centrale. Non ce la faccio a stare fermo, quindi giro quasi ininterrottamente, salvo ogni tanto mettermi in osservazione in qualche punto strategico, spizzicando la mia pizza “scrocchiarella” romana, una delle poche cose che mi manca della mia ex città.
Cerco differenze con l’anno precedente. Cerco di capire che cosa ha cambiato rispetto al solito lo stato d’assedio in cui improvvisamente hanno deciso di farci vivere, da mandria di vacche quale ormai irrimediabilmente siamo.
La prima differenza è che nel piazzale esterno all’ingresso di piazza dei Cinquecento non ci sono più le camionette di polizia e carabinieri ma tre blindati dell’esercito. A terra soldati con fucili mitragliatori bene in vista. Una città in guerra. Ma contro quale fantasma?
Fuori autobus vuoti o semi-vuoti, come ormai in tutta la città. La gente preferisce trascorrere ore e ore nel traffico e intasare ogni possibile strada piuttosto che salire su un mezzo pubblico (anche la metro ormai è quasi sempre vuota). Scegliere il modo in cui suicidarsi è lecito. Ma l’inquinamento è un caso di suicidio-omicidio. In Italia il senso civico non c’è mai tato. Figurarsi in tempi di guerra… o presunta tale.
Dentro la stazione, due militi e un poliziotto mettono in scena la ronda. Il poliziotto non guarda un fico secco. I soldatini osservano tutti con sguardo invariabilmente truce e di sfida. Uno, sbarbato, mi fissa con insistenza negli occhi, con strafottenza e senso di onnipotenza. Forse lo Stato italiano ha dichiarato guerra a me. Ma credevo si servisse sempre e inesorabilmente dell’Agenzia delle Entrate… Sarà un cambio di strategia per continuare a mungere dove ogni anno già munge ben più del lecito. Pagando lo stipendio al ragazzotto in mimetica che mi sfida impertinente col mitragliatore che gli ho pagato io, con le mie tase, in mano.
Girano funzionari di polizia e Digos in borghese. Li riconosci perché hanno la faccia da funzionari di polizia e Digos in borghese, vestono da funzionari di polizia e Digos in borghese e fanno a voce alta discorsi da funzionari di polizia e Digos in borghese. E guardano culi femminili, come forse faranno probabilmente funzionari di polizia e Digos in borghese. Sarà una strategia per sconfiggere il Male concordata dai nostri competenti ministri… D’altronde, è noto da sempre che dopo la cintura esplosiva, l’arma capace di fare più vittime tra il genere maschile è proprio il sedere esplosivo, a cui prima o poi la Nato dichiarerà guerra. O forse l’ha già fatto.
Inanello giri. Le stesse facce di sempre mi propongono più e più volte le stesse cose di sempre. Un paio di ceffi si offrono di farmi il biglietto a pagamento chiedendomelo in un paio di lingue, ma alla fine sempre in romanesco. I tassisti abusivi si sprecano, come ai bei tempi. Ora non più su piazza dei Cinquecento, ma direttamente all’interno, di rimpetto alla biglietteria. E ti offrono il loro servizio illegale senza lesinare strilli e improperi. Evidentemente sono intoccabili. Magari sono funzionari di polizia e Digos in borghese. Hai visto mai…?
Mi chiedono soldi in mille lingue e modi. C’è una madre che sostiene di avere dei figli che hanno fame, ma a guardarla direi che i figlioli dovrebbero avere più o meno la mia età, quindi sarebbe ora che si cercassero un lavoro, magari diverso dal furto con scasso. Uno, con una ragazza dagli occhi sbarrati al seguito, tirata per una mano, chiede a tutti se siano o meno italiani, perché a seconda della risposta chiede un euro o ne chiede due. Un altro dice che ha fame, altri ti augurano lunga vita ma, rimasti a mani vuote, ti maledicono e intanto augurano vita eterna a chi passa dopo di te.
Tutto uguale, militi a parte. Stesso stress, stessa maleducazione, più file da fare aspettando che gente nervosa ai varchi ferroviari improvvisati in questi lavori di ristrutturazione eterni alla Stazione Termini biascichino qualcosa di incomprensibile trattando tutti invariabilmente come delinquenti. E intanto in basso, sotto terra, sono ricominciate le infiltrazioni d’acqua, anche quelle eterne non come la metropolitana di Roma ma come la Città Eterna.
Il dato più interessante, alla fine, riguarda il negozio di una nota azienda delle telecomunicazioni, chiuso per inventario per tutta la mattina. Tanti e tanti visi si contrariano o s’intristiscono alla vista del cartello e della saracinesca a mezz’asta. Sono quasi tutti visi di giovani stranieri, per i quali una ricarica telefonica rappresenta un invisibile cordone ombelicale lungo migliaia di chilometri con casa, gli affetti, il sogno di tornare nei loro Paesi, magari in guerra, lasciando questo Paese in stato di guerra, e sognando finalmente per tutti un mondo migliore, in cui la vita di noi tutti non venga costantemente soppesata sulle bilance della macelleria da quei cento-duecento stronzi che detengono il Potere, quello vero. Qualcuno forse porta anche un nome italiano. Almeno così dicono.

Due ore alla Stazione Termini ti lasciano inevitabilmente addosso un senso di provvisorietà, di disagio, di affanno, di sporco. T’insegnano molto sulla vita e sul senso d’impotenza. E ti fanno capire che siamo tutti soli perché lo siamo singolarmente, nel profondo, e che basterebbe poco per vivere meglio, tutti, tutto il mondo. Basterebbe rinunciare a qualcosa di voluttuario per non dover rinunciare più a ciò che invece conta davvero. E spesso non è materiale e non lo si può comprare. Ad esempio la libertà. Ad esempio la libertà di pensiero e d’espressione. Ma come si fa a spiegarlo a un italiano medio?