Avevano
fatto scalpore, qualche settimana fa, le parole dell’atleta paralimpica belga Marieke Vervoort che sosteneva di voler ricevere l’eutanasia
– legale in Belgio dal 2002 – dopo l’Olimpiade di Rio de Janeiro. Marieke, che
ha 37 anni, soffre da quando ne aveva 15 per una gravissima malattia
degenerativa che l’ha costretta in carrozzina e a sopportare continui
interventi chirurgici e una costante diminuzione delle forze fisiche e della
propria autonomia.
La Vervoot, nei giorni d’esordio dell’Olimpiade
brasiliana, si raccontava alla stampa svelando di aver firmato, già dal 2008,
tutta la documentazione necessaria per la sua eutanasia ma, come chiosa ora,
“vedete? È il 2016 e ho vinto una medaglia”, l’argento nei 400 metri in
carrozzina.
In un futuro, forse lontano, Marieke prenderà
la sua decisione; ora, con la volontà più forte del suo corpo, sogna di provare il volo acrobatico e il
paracadutismo, volare su un jet F16, aprire un museo, competere in una gara di
rally e molto altro. Brava Marieke, figlia di un Paese più civile del nostro, almeno in materia di dibattito e di leggi sulla vita e sulla fine della vita.
Un
tema delicato e complesso, quello dell’eutanasia, di cui ha parlato con affetto
e forza l’antropologa belga Pat Patfoort nel libro dedicato alla madre dal
titolo Mamma viene a morire da noi domenica (Infinito edizioni, 2016).