Le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) furono un episodio storico di
insurrezione popolare avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale tramite il quale, i civili, con
l'apporto di militari fedeli al cosiddetto Regno
del Sud, riuscirono a liberare la città partenopea dall'occupazione delle forze armate
tedesche.
L'avvenimento, che valse alla città
di Napoli il conferimento della medaglia d'oro al valor militare,
consentì alle forze Alleate di trovare al loro arrivo, il 1º
ottobre 1943, una città già
libera dall'occupazione nazista,
grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati ed allo
stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città
europee, ad insorgere con successo contro l'occupazione nazista.
Ripercorriamo insieme a Camillo Albanese, autore del
libro dal titolo “Napoli
e la seconda guerra mondiale” quei giorni tanto
drammatici ed eroici.
Torniamo a Napoli. Il 20
settembre, all’altezza di Capri, si videro delle navi che sembravano far rotta
verso Napoli; si ritenne che lo sbarco delle truppe anglo-americane fosse ormai
imminente. Il comando germanico, in previsione dei combattimenti che si sarebbero
avuti in seguito allo sbarco e per impedire che i napoletani potessero
affiancare le truppe anglo-americane, ordinò l’evacuazione di tutta la fascia
costiera da Punta della Campanella fin quasi a Sorrento. Immaginate a quanti
altri disagi fu sottoposta la popolazione della zona costiera. Fiumane di
persone furono fatte sloggiare dalle proprie abitazione e costrette a
rifugiarsi nel retroterra senza sapere dove poter trascorrere la notte, dove e
quando poter mangiare e bere; tutto questo accadeva mentre il colonnello
Scholl, avendo constatato che il bando del 22 settembre (con il quale aveva
ordinato il reclutamento di tutti i giovani) era stato disatteso, emanava un ultimatum tre giorni dopo. (…)
Nei giorni che seguirono
si videro scene drammatiche, interi caseggiati circondati, uomini strappati
dalle loro case, ammassati per strada sotto la minaccia dei mitra che ogni
tanto facevano sentire la loro sinistra voce per aumentare il terrore e
dissuadere i parenti ad avvicinarsi. L’intensificarsi dei rastrellamenti portò
in quei giorni a razziare circa ottomila persone, buona parte delle quali
furono mandate nel campo di concentramento di Capodimonte, altre consegnate
agli uffici di polizia italiani perché venissero accompagnati ai centri di
raccolta. Molti commissariati, invece di eseguire l’ordine, lasciarono liberi i
malcapitati fornendo loro anche armi. (…)
All’alba del 28 la rivolta
scoppiò quasi contemporaneamente in vari punti della città; la cosa
sorprendente fu che non era stata organizzata, non c’era un piano strategico
generale, una mente coordinatrice. Ciascun gruppo agiva all’interno del proprio
quartiere e non era in contatto con altre formazioni. Ciò se da un lato poteva
rappresentare un limite, dall’altro permetteva ai partigiani di muoversi con
sicurezza tra le strade e le stradine della loro zona, di cui conoscevano i
rifugi, i vicoli senza sbocco, i fondachi, i portichetti, quindi erano
avvantaggiati rispetto al nemico.
Data questa situazione, si
procedeva a compartimenti stagni ma non furono rari i casi in cui ci furono
sconfinamenti nelle aree limitrofe quando ci si accorgeva che occorreva rinforzare
le postazioni.
Da quanto è dato sapere,
la scintilla scoppiò in un vicolo del quartiere Avvocata. Qui una pattuglia
tedesca sfondò il portone di un calzaturificio per forniture militari e si
dette a saccheggiarlo. Gli abitanti della zona, inferociti, cominciarono a
sparare sui militari, che risposero al fuoco. A quel punto non si capì più
nulla: si sparava da tutte le parti, dai portoni, dalle finestre, dai balconi,
dagli angoli delle strade. Una giovane donna, Maddalena Cerasuolo, detta
Lenuccia, fu l’eroina di quello scontro (fu poi insignita della medaglia di
bronzo). La ragazza, senza preoccuparsi dei proiettili che le sibilavano
intorno, correva avanti e indietro per rifornire di bombe a mano i combattenti.
Nella stessa ora
l’insurrezione scoppiò nei quartieri più popolari di Napoli: il Vasto, la
Sanità, la zona della Stazione e di seguito, a poca distanza di tempo, in
piazza Cavour, via Duomo, corso Umberto, piazza Plebiscito, all’incrocio del
Museo, là dove convergono quattro strade: via Salvator Rosa, vie Enrico
Pessina, via Museo, via Santa Teresa. (…)
“Fu – secondo la
testimonianza di Antonino Tarsia in Curia – una guerriglia accanita e spietata
condotta con estrema violenza nella quale gruppi, gruppetti e persino individui
isolati sostennero azioni cruente – determinate da contingenze di luogo e di
tempo – le quali ebbero una continuità nel loro svolgimento dovuta, più di ogni
altro, al frazionamento delle forze tedesche su tutto il territorio della città
di Napoli”.
La sera del 28, Napoli si presentava
come un campo battaglia. Il popolo, guidato soprattutto dall’odio verso i
nazisti prodotto dalla sofferenza per le iniquità subite, ora li costringeva a
ritirarsi. I successi degli scontri, nonostante i tanti morti e feriti,
esaltarono ancor più gli animi, caricando di maggior foga le azioni guerresche.
Si continuava a combattere in via Santa Teresa, dove all’altezza di Materdei
furono erette barricate sia disselciando la strada sia rovesciando una vettura
tranviaria; qui gli scontri durarono tutta la notte tra il 28 e il 29. Anche
via Salvator Rosa fu sbarrata da imponenti barricate, che impedirono il
transito ai carri armati nemici.
La mattina del 29
settembre la rivolta armata scoppiò in tutto il Vomero e nelle zone adiacenti e
fu condotta con coraggio e determinazione. C’erano tedeschi asserragliati negli
edifici di via Kerbaker, via Solimena, via Cimarosa, piazza Medaglie d’oro e
nella palazzina del campo sportivo e si difendevano come potevano dagli assalti
dei partigiani, mentre in piazza Vanvitelli, via Alvino, la Pigna, piazza
Leonardo, Cappella dei Cangiani gli scontri avvennero in campo aperto.
Era l’alba e in via
Kerbaker c’era un gruppo di nazifascisti che sparava da una finestra del quarto
piano. I partigiani risposero al fuoco, erano allo scoperto, due furono
gravemente feriti, se ne salvò solo uno. Quando fecero irruzione
nell’appartamento, i nemici erano fuggiti per i tetti, lasciandosi dietro
macchie di sangue e una vecchia in preda al terrore.
In via Solimena furono
messi in fuga alcuni tedeschi che, con una mitragliatrice messa su un davanzale
di un abbaino, sparavano all’impazzata. L’operazione costò la vita a un
partigiano.
Due giovani militi
fascisti che montavano la guardia alla sede del fascio, in via Cimarosa, furono
disarmati e massacrati di botte.
Una postazione, annidata
nel palazzo detto il Transatlantico,
in piazza Medaglie d’oro, fu messa a tacere con un’abile azione.
Un intenso combattimento
si svolse intorno al campo sportivo durante tutto il 29. Circa sessanta tedeschi,
comandati dal maggiore Sakau, erano rinchiusi nelle due palazzine all’ingresso
del campo; avevano 47 ostaggi e sparavano senza sosta contro i partigiani, che
avevano preso posizione nei fabbricati di fronte. In rinforzo ai partigiani
arrivò una camionetta guidata dal vigile del fuoco Mario Canessa, con a bordo
una mitragliatrice. Il vicebrigadiere dei carabinieri Vincenzo Pace saltò sulla
camionetta, mise in posizione l’arma e concentrò il fuoco verso il nemico.
Pace, dopo poco, venne ferito e il suo posto fu subito preso da un altro. I
combattimenti continuavano. Erano le 18,00 quando dall’ingresso del campo
apparve il maggiore Sakau preceduto da una bandiera bianca e circondato da
altri militari. I partigiani s’avvicinarono, uno di loro conosceva il tedesco.
Il maggiore chiese di cessare il fuoco e di lasciar passare i suoi uomini,
minacciando l’uccisione degli ostaggi. La controproposta dei partigiani fu: “O
la resa o continuare a combattere”. Sakau scelse la seconda soluzione. La
sparatoria continuò ancora per un’ora ma poi riapparve dal cancello del campo a
bordo di una camionetta con bandiera bianca portata da un suo subalterno. Si
riaprirono le trattative; il maggiore disse che per arrendersi occorreva
l’ordine del comandante Scholl che risiedeva all’albergo Parco in corso Vittorio Emanuele, eletto a quartiere generale.
Mentre si stava decidendo il da farsi, l’autista, pare preso dal panico alla
vista di alcuni uomini armati fece esplodere una bomba a mano che mise fuori
uso l’automezzo. Con un’altra macchina la delegazione tedesca, disarmata, venne
portata in corso Vittorio. All’albergo Parco
regnava il caos più totale, fervevano i preparativi per la fuga. In breve fu
raggiunto l’accordo: i 47 ostaggi sarebbero stati liberati e i tedeschi
sarebbero stati lasciati liberi di partire. Intorno alla mezzanotte rientrò al
campo sportivo la delegazione, l’accordo fu mantenuto da tutte e due le parti e
i tedeschi partirono su tre autocarri. Nella battaglia del campo sportivo
persero la vita sette civili.
Piazza Vanvitelli divenne
l’epicentro dei combattimenti. Quadrivio strategico per i belligeranti, lì si
concentrarono i partigiani provenienti dalle strade circostanti. All’angolo di
via Luca Giordano una mitragliatrice tedesca sputava fuoco a ripetizione, fermando
l’assalto dei partigiani; uno di essi, uscito allo scoperto, si lanciò contro
ma una raffica lo ferì mortalmente. Gli scontri continuavano. Dopo circa due
ore di combattimenti, verso le 17,30 un fortissimo temporale sembrò placare gli
animi: cessarono gli spari ma, finito il temporale, i tedeschi ripresero a
scorrazzare nella zona e due autoblindo sparavano su ogni cosa si muovesse. I
due mezzi furono fermati da bombe a mano lanciate dalle finestre.
Durante la notte i
tedeschi a piedi o motorizzati gridavano: “Italiani non sparate”. Un grido
esplicativo del loro stato d’animo.
Sempre il 29, intorno alle
nove del mattino, i partigiani intercettarono una camionetta tedesca che
rimorchiava un’automobile. Ordinarono l’alt
ma la camionetta proseguì accelerando. Fu inseguita con un’altra vettura e,
raggiunta, cominciò la sparatoria; i tedeschi rimasero feriti e furono fatti
prigionieri.
In via delle Pigne i
partigiani furono alle prese con delle mine, che se scoppiate avrebbero
gravemente danneggiato i palazzi del circondario. Riuscirono a toglierle sotto
il fuoco nemico e a buttarle in un pozzo adiacente. La sera, poi, vedendo
passare un’autocolonna nemica, si predisposero per impedirne il transito. Forti
di una mitragliatrice e con l’appoggio di altri gruppi di partigiani armati di
mitra e bombe a mano, la partita si chiuse a vantaggio dei napoletani.
Il 29, a mattina
inoltrata, gli scontri si fecero aspri in piazza Leonardo. I partigiani per
impedire ai tedeschi, provenienti da piazza Medaglie d’oro, di raggiungere via
Salvator Rosa, fortificarono la zona e appena videro passare il primo
autocarro, armato di mitragliatrice, aprirono il fuoco costringendo gli
occupanti a darsi alla fuga. Stessa sorte toccò a un altro automezzo che fu
abbandonato, come il primo, nelle mani dei partigiani.
A Cappela dei Cangiani i
tedeschi, per garantirsi il transito senza pericolo, dettero luogo a una
perquisizione dei fabbricati e presero dodici ostaggi. Li trascinarono per
strada e stavano per fucilarli quando un commando
di partigiani intervenne a liberarli.
La sera del 29 settembre,
mentre i partigiani del Vomero attendevano la delegazione tedesca con
l’autorizzazione del colonnello Scholl a trattare la resa, si riunirono nei
locali del liceo Sannazzaro per la
formale costituzione di un comando dei partigiani. Per acclamazione fu nominato
capo del comando Antonino Tarsia in Curia e alla formazione, priva di colore
politico e avente solo scopo patriottico, fu dato il nome di Fronte unico
rivoluzionario, con sede nel liceo. Si procedette a dare un minimo di
organizzazione alla neonata compagine e a risolvere i problemi più urgenti. Tra
questi, quello di fornire viveri ai partigiani, digiuni dal mattino. Fu
composta una squadra per il reperimento di qualunque cosa fosse commestibile.
Con le buone e con la forza si riuscì a racimolare razioni sufficienti per
sfamare circa duecento persone.
Un altro reparto di
partigiani fu incaricato di dare la caccia alle spie e ai gerarchi fascisti
annidati nei vari appartamenti. Compito che fu assolto secondo le precise
direttive di Tarsia.
Spuntava l’alba del 30
settembre, l’epopea delle Quattro Giornate stava per concludersi. Nel liceo Sannazzaro si decise di emanare
un’ordinanza per dissuadere i male intenzionati ad azioni non in linea con i
programmi del Fronte. Il proclama, a firma Tarsia, così recitava:
“Assumo
temporaneamente i poteri civili e militari.
Ciascuno
faccia scrupolosamente il suo dovere, la disciplina deve essere assoluta. Sono
vietate tutte le manifestazioni che turbano l’ordine pubblico. I negozi debbono
rimanere aperti: squadre d’azione rivoluzionaria sorveglieranno la disciplina e
la vendita nei pubblici esercizi.
Napoli,
30 settembre 1943”.
Lo stesso giorno il
tenente colonnello Felicetti si recò al comando del Fronte prospettando lo
stato d’inedia della popolazione e la possibilità di rimediare con un carico di
circa cento quintali di farina; per trasportarli, però, chiedeva due automezzi.
L’ufficiale era conosciuto per la sua serietà ma, date le circostanze, la diffidenza
non era troppa. Ebbe i suoi camion con la raccomandazione di portare a termine
la missione, pena una severa punizione.
Cominciò il lungo viaggio
dei due camion, che si manifestò pieno d’insidie e di pericoli. Giunti a un
mulino che sorgeva ai margini del campo d’aviazione di Capodichino, entrarono
da un portone laterale in maniera che i tedeschi, ancora sulle piste e negli hangar, non riuscissero a vederli.
Mentre stavano ultimando il carico, tuttavia, s’accorsero che i militari
stavano per intervenire. Solo la prontezza di spirito di Felicetti salvò il
salvabile: lasciò il camion ancora non completo e partì con quello pieno
attraverso strade impervie che solo lui conosceva. Fu un viaggio pericoloso
perché dovette evitare tutte le zone dov’era prevedibile fare brutti incontri.
Il viaggio durò dieci ore ma l’ufficiale italiano riuscì a portare a
destinazione un camion di farina, che fu provvidenziale. I panettieri furono
mobilitati e riuscirono a produrre pane per gli abitanti del Vomero in ragione
di cento grammi a testa.
Nel pomeriggio del 30
settembre ci fu un tentativo da parte di un console fascista e dei suoi uomini
di assaltare la sede del Fronte unico rivoluzionario. I partigiani,
preventivamente avvisati del blitz,
predisposero le forze in modo tale che quando arrivarono i fascisti ebbero
un’accoglienza talmente rumorosa che se la dettero a gambe disperdendosi senza
lasciare traccia.
Il tramonto aveva concluso
il suo breve ciclo e la sera declinava verso il desiderio della notte. La
città, stanca, sembrava sonnolenta. I partigiani avevano disposto le ronde in
luoghi strategici. Le sparatorie dei giorni e delle ore precedenti erano
cessate; solo qua e là qualche colpo isolato, ultimo rantolo d’una battaglia
morente.
In lontananza si sentiva il
tuono dei cannoni. Lo scontro era adesso tra l’armata tedesca in ritirata e
quella anglo-americana che avanzava. Anche le navi da guerra americane e
inglesi contribuivano a quel fragore rassicurante. In cielo i proiettili
traccianti, i razzi illuminanti, lo scoppio di granate offrivano uno spettacolo
che si sarebbe potuto definire piacevole se non avesse nascosto distruzione e
morte. Con questa scena calava il sipario sulle Quattro Giornate di Napoli, 76
ore di combattimenti, dal mattino del 28 settembre all’alba del primo ottobre,
che costarono la vita a 178 partigiani e il ferimento di 162».