Se
non vi saranno passi indietro dell’ultima ora – al momento ancora possibili,
forse addirittura probabili – il prossimo 25 settembre il contribuente della
Repubblica serba di Bosnia (Rs) vedrà sperperato il proprio denaro dal
presidente-miliardario Milorad Dodik per il più assurdo, provocatorio e
offensivo referendum mai proposto negli ultimi vent’anni dal tycoon amico di Vladimir Putin e di
Silvio Berlusconi al suo popolo: l’istituzionalizzazione della data del 9
gennaio come festa nazionale, ovvero Giornata della Repubblica serba. Il 9
gennaio 1992 i serbi, guidati dal criminale di guerra Radovan Karadžić – come recentemente
stabilito in primo grado dal Tribunale per i crimini di guerra nella ex
Jugoslavia – proclamavano la loro repubblica, mentre i primi scontri erano già
in corso e di lì a poco l’aggressione armata serbo-bosniaca alla Bosnia Erzegovina
sarebbe andata in scena. Riconoscere attraverso un referendum questa data come
data fondativa della Rs avrebbe le seguenti conseguenze: rappresenterebbe un
primo passo verso la proclamazione d’indipendenza di una entità amministrativa
fondata sulla pulizia etnica e sullo stupro etnico; provocherebbe una profonda
e pericolosissima destabilizzazione dell’intero spazio ex jugoslavo, che coinvolgerebbe
in prima persona Serbia e Croazia, sempre più ai ferri corti e al contempo
garanti degli Accordi di Dayton (che misero fine al conflitto del 1992-1995) e,
dulcis in fundo, violerebbe gli
Accordi di Dayton stessi e la Costituzione vigente, negli Accordi contenuta.
Ce ne
sarebbe abbastanza affinché l’Alto rappresentante della Comunità internazionale
in Bosnia Erzegovina cominci a pensare alla possibilità di rimuovere dal suo
incarico Dodik, ma al momento la diplomazia europea, inclusa quella serba, sta
cercando di sminare l’ennesima carica esplosiva deposta da Dodik proprio alle
fondamenta di questa debole a problematica creatura chiamata Bosnia Erzegovina
(tale perché, come tutte le creature, abbandonata dai suoi stessi genitori già
nella culla). Due giorni fa anche il Consiglio che indica le linee guida del
lavoro dell’Ufficio dell’Alto rappresentante e che controlla l’implementazione
degli Accordi di Dayton si è espresso negativamente nei confronti del
referendum e ne ha chiesta l’immediata revoca. Per tutta risposta, ancora una
volta Dodik ha confermato la chiamata alle urne. Ora si aspetta una mossa da
parte di Belgrado, la cui posizione rispetto alla Ue e alla richiesta di
ingresso nell’Unione si complicherebbe non poco se Dodik, che è un protetto (per
quanto molto scomodo) dell’attuale governo nazionalista serbo, non accettasse
di mettere fine all’ennesima provocatoria alzata di testa.
C’è
ancora tempo, ma per la Bosnia Erzegovina le prossime tre settimane rischiano d’essere
molto pesanti e potenzialmente drammatiche se la lenta e goffa diplomazia
europea non riuscirà a risolvere questo non indifferente problema.