venerdì 24 febbraio 2017

La Bosnia, i nazionalismi e la richiesta di revisione della sentenza di genocidio contro la Serbia

Nel 2007 la Corte di giustizia internazionale (Icj) de L’Aja aveva messo fine con una sentenza salomonica e politicizzata a una lunga querelle tra Bosnia Erzegovina e Serbia. Sarajevo chiedeva a L’Aja di condannare la Serbia per aggressione armata e genocidio durante la guerra del 1992-1995, la Serbia si difendeva negando il tutto. Alla fine, una sentenza assurda e contestata da tutti chiudeva la causa, con la Corte che riusciva a rendersi ridicola scrivendo, nel testo della sentenza, che la Serbia non era responsabile per il genocidio ma s’era macchiata della colpa di non aver fatto abbastanza per prevenirlo. In politichese, un rompete le righe e non rompete più le scatole.
L’aggressione serbo-bosniaca alla Bosnia Erzegovina è evidente e sono fin troppo le prove e le testimonianze che lo dimostrano. L’aggressione della Serbia contro la Bosnia Erzegovina è molto meno evidente ma tutti sanno che è andata così, a cominciare dai serbi, ma il regime di Slobodan Milošević fu bravo a nascondere le prove, così come lo fu quello non meno colpevole di Franjo Tuđman, perché se tutti puntano il dito contro l’aggressione serba, non da meno è stata, rispetto alla Bosnia Erzegovina, la Croazia. Ora però, secondo Izetbegović, nuovi elementi a suffragio della tesi dell’aggressione serba sarebbero emersi dal processo in corso sempre a L’Aja, ma davanti ai giudici del Tribunale penale internazionale per i crimini ci guerra nella ex Jugoslavia (Tpi), contro l’ex generale Ratko Mladić, l’ultimo dei nomi eccellenti in attesa di sentenza, auspicabilmente di condanna.
Tutto questo ha senso? Io credo di no.
Per provare la verità dell’aggressione serba contro la Bosnia Erzegovina, a suo tempo, Sarajevo giocò la sua partita non male, ma malissimo a L’Aja, mettendo la pratica in mano di un avvocato inesperto e mancando di presentare tutte le prove documentali e le testimonianze personali che sarebbe stato necessario portare a suffragio di quella tesi. In sostanza, la Bosnia Erzegovina fece giudiziariamente harakiri, seguì la causa con colpevole superficialità e il governo di allora non se n’è mai neanche lontanamente scusato con le vittime del conflitto e con i famigliari delle vittime.
Bakir Izetbegović – impresentabile presidente musulmano-bosniaco della presidenza tripartita bosniaco erzegovese creata dagli Accordi di Dayton, non meno nocivo del padre Alija per il suo Paese – ha avuto a disposizione dieci anni per presentare ricorso contro la sentenza e non è un caso che abbia deciso di farlo solo ora. E nulla ha a che vedere la raccolta di nuove prove nel processo contro Mladić. Una scelta quasi fuori tempo massimo ma ricca di tempismo, la sua. In un momento in cui i rapporti tra Bosnia Erzegovina e Serbia cominciavano a stemperarsi e i due Paesi stavano tornando a dialogare, la scelta di presentare la richiesta di revisione della sentenza a mio avviso non motivata da un improvviso quanto irrefrenabile desiderio di giustizia da parte dell’imprenditore-politico Izetbegović, quanto dalla volontà di non far allentare la tensione tra i due Paesi e all’interno della Bosnia Erzegovina stessa, dove il mastino del negazionismo e della secessione, il presidente serbo-bosniaco della Repubblica serba di Bosnia, Milorad Dodik, contando sul sostegno del presidente russo Vladimir Putin sta giocando una partita senza esclusione di colpi per spaccare definitivamente in due il Paese.
Izetbegović – un mero populista, una delle peggiori iatture che potesse toccare in sorte al Paese – sta giocando al gioco tanto caro al padre Alija: quest’ultimo sarebbe stato disposto a tutto pur di poter avere sotto le sue mani una Bosnia Erzegovina magari “grande come una tazzina ci caffè”, ma musulmana. Bakir Izetbegović non ne fa certamente una questione di appartenenza religiosa quanto di business personale: se le tensioni interne finalmente si riducessero, il suo sistema di potere, basato sulla differenza e sull’odio – esattamente come quello degli altri, quindi serbo-bosniaci e croato-bosniaci – vacillerebbe e collasserebbe. E perdere la leadership politica equivarrebbe per lui – e per gli altri oligarchi che hanno in pugno il Paese – a un bagno economico tale da cancellarlo dalla scena politica ed economica del Paese. Izetbegović questo non lo vuole e non lo vogliono neppure gli altri oligarchi suoi pari, oltre ai loro padrini internazionali. Troppi soldi e troppi affari in corso per rischiare di dover fare dei passi indietro. E allora ecco il gioco continuo della tensione, che gli unici a pagare sono, come sempre, i cittadini. Facili prede degli slogan nazionalistici che inducono all’odio e alla separazione e che i media vicini ai gruppi nazionalisti alimentano senza tregua.
Comunque vada il ricorso a L’Aja, dunque, la ricerca non è certamente quella, nobile, della giustizia e della verità, quanto quella, bassa, del fine personale. E tutti dovranno pagare, alla fine, per questo. Anzi, probabilmente già hanno cominciato a farlo.