Nel
2007 la Corte di giustizia internazionale (Icj) de L’Aja aveva messo fine con
una sentenza salomonica e politicizzata a una lunga querelle tra Bosnia Erzegovina e Serbia. Sarajevo chiedeva a L’Aja
di condannare la Serbia per aggressione armata e genocidio durante la guerra
del 1992-1995, la Serbia si difendeva negando il tutto. Alla fine, una sentenza
assurda e contestata da tutti chiudeva la causa, con la Corte che riusciva a
rendersi ridicola scrivendo, nel testo della sentenza, che la Serbia non era
responsabile per il genocidio ma s’era macchiata della colpa di non aver fatto
abbastanza per prevenirlo. In politichese, un rompete le righe e non rompete
più le scatole.
L’aggressione
serbo-bosniaca alla Bosnia Erzegovina è evidente e sono fin troppo le prove e
le testimonianze che lo dimostrano. L’aggressione della Serbia contro la Bosnia
Erzegovina è molto meno evidente ma tutti sanno che è andata così, a cominciare
dai serbi, ma il regime di Slobodan Milošević fu bravo a nascondere le prove,
così come lo fu quello non meno colpevole di Franjo Tuđman, perché se tutti
puntano il dito contro l’aggressione serba, non da meno è stata, rispetto alla
Bosnia Erzegovina, la Croazia. Ora però, secondo Izetbegović, nuovi elementi a
suffragio della tesi dell’aggressione serba sarebbero emersi dal processo in
corso sempre a L’Aja, ma davanti ai giudici del Tribunale penale internazionale
per i crimini ci guerra nella ex Jugoslavia (Tpi), contro l’ex generale Ratko
Mladić, l’ultimo dei nomi eccellenti in attesa di sentenza, auspicabilmente di
condanna.
Tutto
questo ha senso? Io credo di no.
Per
provare la verità dell’aggressione serba contro la Bosnia Erzegovina, a suo
tempo, Sarajevo giocò la sua partita non male, ma malissimo a L’Aja, mettendo
la pratica in mano di un avvocato inesperto e mancando di presentare tutte le
prove documentali e le testimonianze personali che sarebbe stato necessario
portare a suffragio di quella tesi. In sostanza, la Bosnia Erzegovina fece
giudiziariamente harakiri, seguì la
causa con colpevole superficialità e il governo di allora non se n’è mai neanche
lontanamente scusato con le vittime del conflitto e con i famigliari delle vittime.
Bakir
Izetbegović – impresentabile presidente musulmano-bosniaco della presidenza
tripartita bosniaco erzegovese creata dagli Accordi di Dayton, non meno nocivo
del padre Alija per il suo Paese – ha avuto a disposizione dieci anni per
presentare ricorso contro la sentenza e non è un caso che abbia deciso di farlo
solo ora. E nulla ha a che vedere la raccolta di nuove prove nel processo contro
Mladić. Una scelta quasi fuori tempo massimo ma ricca di tempismo, la sua. In
un momento in cui i rapporti tra Bosnia Erzegovina e Serbia cominciavano a
stemperarsi e i due Paesi stavano tornando a dialogare, la scelta di presentare
la richiesta di revisione della sentenza a mio avviso non motivata da un
improvviso quanto irrefrenabile desiderio di giustizia da parte dell’imprenditore-politico
Izetbegović, quanto dalla volontà di non far allentare la tensione tra i due
Paesi e all’interno della Bosnia Erzegovina stessa, dove il mastino del
negazionismo e della secessione, il presidente serbo-bosniaco della Repubblica
serba di Bosnia, Milorad Dodik, contando sul sostegno del presidente russo Vladimir
Putin sta giocando una partita senza esclusione di colpi per spaccare definitivamente
in due il Paese.
Izetbegović
– un mero populista, una delle peggiori iatture che potesse toccare in sorte al
Paese – sta giocando al gioco tanto caro al padre Alija: quest’ultimo sarebbe
stato disposto a tutto pur di poter avere sotto le sue mani una Bosnia
Erzegovina magari “grande come una tazzina ci caffè”, ma musulmana. Bakir Izetbegović
non ne fa certamente una questione di appartenenza religiosa quanto di business personale: se le tensioni
interne finalmente si riducessero, il suo sistema di potere, basato sulla differenza
e sull’odio – esattamente come quello degli altri, quindi serbo-bosniaci e
croato-bosniaci – vacillerebbe e collasserebbe. E perdere la leadership politica equivarrebbe per lui
– e per gli altri oligarchi che hanno in pugno il Paese – a un bagno economico
tale da cancellarlo dalla scena politica ed economica del Paese. Izetbegović
questo non lo vuole e non lo vogliono neppure gli altri oligarchi suoi pari,
oltre ai loro padrini internazionali. Troppi soldi e troppi affari in corso per
rischiare di dover fare dei passi indietro. E allora ecco il gioco continuo
della tensione, che gli unici a pagare sono, come sempre, i cittadini. Facili
prede degli slogan nazionalistici che inducono all’odio e alla separazione e
che i media vicini ai gruppi
nazionalisti alimentano senza tregua.
Comunque
vada il ricorso a L’Aja, dunque, la ricerca non è certamente quella, nobile,
della giustizia e della verità, quanto quella, bassa, del fine personale. E
tutti dovranno pagare, alla fine, per questo. Anzi, probabilmente già hanno
cominciato a farlo.