venerdì 8 luglio 2016

20 settembre 2003, Bill Clinton a Srebrenica

L’11 luglio 1995, Srebrenica: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi. Ripercorriamo quei giorni con le parole di alcuni nostri autori che hanno affrontato questo argomento.
Ho scelto, a partire da oggi e fino al 12 luglio, dei passi tratti dal libro che ho scritto con Riccardo Noury, dal titolo Srebrenica. La giustizia negata. Cominciamo dalla visita di Bill Clinton a Potočari

Bill Clinton giunse a Srebrenica il 20 settembre 2003. Prima non c’era mai stato. Eppure era lui il presidente degli Stati Uniti d’Ame­rica ai tempi del genocidio. Clinton entrò in carica per il suo primo mandato nel 1993 e chiuse il suo secondo termine nel 2001. È a lui che si deve la fine – seppur tardiva e sbagliata, nei termini e ne­gli accordi – del conflitto bosniaco del 1992-1995. L’ex presidente della superpotenza mondiale per antonomasia giunse nel luogo del martirio di oltre diecimila civili inermi quasi sospeso in una nu­vola di telecamere, flash, taccuini, domande a cui in buona parte non fu data risposta, aspettative. Impeccabile in giacca e cravatta. Clinton tenne il discorso d’inaugurazione del cimitero memoriale di Potočari. Davanti a migliaia di vedove, di figlie, di sopravvissute al genocidio di Srebrenica, perpetrato appena otto anni prima, si commosse pronunciando frasi pesanti come macigni proprio per­ché cariche di promesse e di princìpi mai e poi mai attuati. Prima di leggere il suo discorso aveva incontrato in privato una delegazione di donne di Srebrenica. Aveva fatto promesse. Aveva chiesto scusa. S’era commosso. Era stato attaccato. Era stato persino consolato. Lui. Davanti alle telecamere di tutto il globo, in un memoriale in cui erano state sepolte in luglio le prime centinaia di piccole bare verdi piene di ossa, solo d’ossa, Clinton disse cose di questo tenore:
“We remember this terrible crime because we dare not forget, be­cause we must pay tribute to the innocent lives, many of them children, snuffed out in what must be called genocidal madness…”.
“I hope the very mention of the name Srebrenica will remind every child in the world that pride in our own religious and ethnic heritage does not require or permit us to dehumanize or kill those who are dif­ferent. I hope and pray that Srebrenica will be for all the world a sober reminder of our common humanity”.
“May God bless the men and boys of Srebrenica and this sacred land their remains grace”.
Lacrime. Promesse. Lui che si allontana con un’immensa scorta.

Bugie. L’ennesimo “che non accada mai più” pronunciato a vanvera da un potente. Come quelli detti dopo la Shoah, dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo la guerra di Corea, dopo il Vietnam… e così via, fino al Rwanda, 1994, e Srebrenica, 1995, e poi fino ai nostri giorni. “Mai più” falsi e bugiardi.