lunedì 11 luglio 2016

Srebrenica, i tre ricordi di Hatiđa

Nel giorno dell’anniversario della caduta di Srebrenica, da Srebrenica. La giustizia negata, i tre ricordi di Hatiđa Mehmedović.

Hatiđa Mehmedović, una donna di cui ho raccontato in un intero capitolo del mio Srebrenica. I giorni della vergogna, uscito per il decennale del genocidio, e a cui hanno porta­to via tutto. Le sono rimaste tre cose che le ricordano d’essere stata sposata, d’aver avuto una famiglia, una vita normale. Un tempo.
La prima cosa: una vecchissima foto sgranata che ha ritrovato per caso da lontani parenti e di cui ha fatto rifare il negativo per poterla stampare in formato gigante. Perché gli sterminatori ultra­nazionalisti serbo-bosniaci e serbi di Srebrenica e i delatori che li hanno fiancheggiati sul posto hanno prestato molta attenzione a cancellare tutto ciò che potesse raccontare della secolare presenza musulmana bosniaca in città.
La seconda: l’abete piantato di fianco alla casa dal figlio maggiore, ammazzato dai criminali alle dipendenze di Mladić.
Infine, il nome tracciato con un legnetto dal figlio minore quand’e­ra bambino sul cemento del marciapiede intorno a casa, steso dal marito prima che la guerra scoppiasse. Ammazzati anche loro due, padre e figlio più piccolo. Di uno di loro tre sono stati ritrovati i resti. Degli altri ogni tanto esce fuori qualcosa dal terreno della Republika Srpska, trasformato in quella zona in un’immensa fossa comune, op­pure dai sacchi bianchi del centro commemorativo di Tuzla, il luogo in cui porterei in visita d’istruzione tutti i potenti della Terra e i loro leccapiedi di certa stampa e di certa impresa, lasciandoli qualche de­cina di minuti chiusi in un frigorifero di duecentocinquanta metri quadrati pieno di sacchi di esseri umani fatti a pezzi e riesumati da fosse comuni secondarie e terziarie.