Nel
giorno dell’anniversario della caduta di Srebrenica, da Srebrenica. La giustizia negata, i tre ricordi
di Hatiđa
Mehmedović.
Hatiđa
Mehmedović, una donna di cui ho raccontato in un intero capitolo del mio Srebrenica.
I giorni della vergogna, uscito per il decennale del genocidio, e a cui
hanno portato via tutto. Le sono rimaste tre cose che le ricordano d’essere
stata sposata, d’aver avuto una famiglia, una vita normale. Un tempo.
La
prima cosa: una vecchissima foto sgranata che ha ritrovato per caso da lontani
parenti e di cui ha fatto rifare il negativo per poterla stampare in formato
gigante. Perché gli sterminatori ultranazionalisti serbo-bosniaci e serbi di
Srebrenica e i delatori che li hanno fiancheggiati sul posto hanno prestato
molta attenzione a cancellare tutto ciò che potesse raccontare della secolare
presenza musulmana bosniaca in città.
La
seconda: l’abete piantato di fianco alla casa dal figlio maggiore, ammazzato
dai criminali alle dipendenze di Mladić.
Infine, il nome
tracciato con un legnetto dal figlio minore quand’era bambino sul cemento del
marciapiede intorno a casa, steso dal marito prima che la guerra scoppiasse.
Ammazzati anche loro due, padre e figlio più piccolo. Di uno di loro tre sono
stati ritrovati i resti. Degli altri ogni tanto esce fuori qualcosa dal terreno
della Republika Srpska, trasformato in quella zona in un’immensa fossa comune,
oppure dai sacchi bianchi del centro commemorativo di Tuzla, il luogo in cui
porterei in visita d’istruzione tutti i potenti della Terra e i loro leccapiedi
di certa stampa e di certa impresa, lasciandoli qualche decina di minuti
chiusi in un frigorifero di duecentocinquanta metri quadrati pieno di sacchi di
esseri umani fatti a pezzi e riesumati da fosse comuni secondarie e terziarie.