martedì 12 luglio 2016

Srebrenica, il ricordo di Pierfrancesco Curzi

Nell'abitato di Potočari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto, ricavato dentro un container, ricordo dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco salendo ancora verso l'hotel Domavia, quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte, infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe, facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari, stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una lacrima. Sconfitta annunciata.