sabato 12 marzo 2016

3/“Eden”, se la fortuna aiuta gli audaci (almeno per una volta), tra palafitte e fenicotteri

Le giornate si susseguivano pesanti come sempre in redazione quando, un giorno, la mia segretaria di redazione preferita mi scodella sulla scrivania una delle tante lettere che arrivano ai giornali. Oddio, più che una lettera, una busta bella pesante.
Leggo il mittente e mi viene un sussulto: Ufficio del turismo della Malesia.
Subito torna in cattedra il mio atavico pessimismo. Mi viene in mente che sarà una lettera formale con la quale mi dicono che hanno tanto gradito la mia disponibilità, ma sarà per un’altra volta. Mi era da poco successo con l’Enea nel tentativo di coronare il mio sogno di andare a fare un reportage nella base italiana in Antartide, in fin dei conti…
Apro la busta e… dentro trovo istruzioni, contatti, ringraziamenti, complimenti, ogni altro ben di dio e… i biglietti di andata e di ritorno.
Non ci credo. Non è aprile, ma in un giornale non si sa mai. Telefono. Mi confermano tutto. E mi ringraziano pure.
Parto prima di Pasqua e torno esattamente quella domenica.
Biglietto Roma-Singapore-Kuala Lumpur e ritorno. Per la permanenza, oltre alla capitale e ai dintorni, “ho vinto” un altro scalo aereo a Kota Kinabalu, nel Sabah malese. Mi accorgo di non sapere neanche di che cosa stiamo parlando, mi documento e poi comunico a direttore, capo redattore e capo servizio: “Mi hanno invitato in Malesia, tutto spesato. Se prendo le ferie, col cavolo che scrivo per il giornale. Se non me le fate prendere, sono a disposizione”. È un coro di “fai come ti pare”, “chi se ne frega”, “boh, ci penserò” e solo il capo servizio commenta con un “che culo!”, ma ho sempre pensato che si riferisse a una collaboratrice della redazione sportiva, lì di fronte, e rimarrò per sempre col dubbio, che senz’altro non mi rode.
Così partii, per un viaggio di ripicca nei confronti dell’azienda che non mi pagava, al termine del quale mi ritrovai con un’esperienza umana e professionale notevole, con l’Ufficio del turismo arrabbiato perché non avevo scritto “marchette” sul giornale ma, in parecchi articoli, pubblicati tra Italia e Svizzera, la verità di quel che vedevo (non avevano messo in preventivo che un giornalista non embedded, come nel mio caso, non ha problemi a scavalcare il muro di cinta di un resort, a passare in mezzo a un campo da golf con una partita in corso e ad andarsi a infilare in un villaggio di palafitte in cui vivono i reietti della società, ricavandone immagini e sensazioni terribili, che poi vanno per forza raccontate, se si vuole rimanere liberi e indipendenti) e con un’idea che ancora non nasceva, ma macerava e forse cominciava a voler spuntare fuori. Comunque, in questo post pubblico qualche foto fatta nel villaggio su palafitte in cui vivevano i reietti del Sabah, in larga parte migranti che fornivano lavoro a basso costo all’occorrenza. Ma che vivevano in condizioni igieniche spaventose, scaricando nell’acqua salmastra sotto i loro piedi ciò che avrebbero riutilizzato per sciacquare le verdure che avrebbero mangiato. Ma pensate a una distesa d’acqua nera punteggiata di palafitte e di fenicotteri rosa…
Prima di scrivere il libro, però, c’era altro da fare, in particolare fronteggiare il fallimento dell’azienda per la quale lavoravo, cercare una nuova occupazione e caricarsi di altre esperienze di vita, soprattutto nei Balcani, finché…