lunedì 6 luglio 2015

#MeseDellaMemoria: Srebrenica vent’anni dopo/4 - Alto il sole, brucia slavo

Alto il sole, brucia slavo. Brilla il sudore al chiarore di un cielo terso, senza veli, senza nuvole a protezione, senza nessuna compassione. Srebrenica.
È l'undici luglio dell'anno 1995, io mi chiamo Suljo, sono jugoslavo, ho quarant'anni e, prima che l'inferno divorasse la mia città, lavoravo allo stabilimento termale del Monte Guber.
È l'undici luglio 1995 e ho una moglie, una figlia di quindici anni e un'altra che le sarà sempre più giovane di due anni. Sono bellissime: bionde come la madre, con gli occhi verdi come i miei e profumano di mela e di prugna. La "piccola" è diventata signorina l'altro ieri. Sul suo viso brillavano lo stupore, un po' di paura e la felicità di essere finalmente donna, come sua sorella.
È l'undici luglio 1995 e questo è il quarto anno di guerra. Da che è iniziata questa follia collettiva non ho ancora visto il nemico, non ho sentito l'odore del sangue mischiato alla terra, i miei occhi non hanno ancora incrociato una sola morte violenta. Certo, c'è l'orrore dentro i discorsi di Avdo, Emir, Mujo, i miei ex colleghi dei bagni termali, ma io penso che esagerino.
È l'undici luglio 1995 e a noi non succederà, con i serbi di qui siamo sempre andati d'accordo. Serbi... mi fa quasi sentire ridicolo usare questa parola: suvvia, noi siamo tutti Jugoslavi! Fratellanza e unità, è così che i nostri genitori partigiani ci hanno cresciuto. Siamo fratelli.
È l'undici luglio 1995 e i nostri fratelli sono penetrati nella mia città, Srebrenica. Fa molto caldo. In città sembrano tutti impazziti e serpeggia il terrore. La fame gioca brutti scherzi e, lo devo ammettere, non stiamo mangiando come dovremmo da ormai troppo tempo. La maggior parte della cittadinanza ha deciso di spostarsi alla base Onu di Potočari per chiedere protezione ai soldati olandesi del Dutchbat.
È l'undici luglio 1995 e sapevo che non era una buona idea venire qui. Siamo migliaia, non si respira e siamo stanchi, così stanchi da non riconoscerci neanche più fra di noi. Una voce squilla dagli altoparlanti per dirci che il generale Karremans, il comandante del Dutchbat, ha deciso di farci uscire.
"Uscite dalla base in gruppi da cinque e andate dai serbi che vi porteranno al sicuro".
Visto? Potevamo risparmiarci queste ore di agonia, stipati qui dentro come se fossimo carne da macello. Siamo uomini, siamo esseri umani. Dignità!
È l'undici luglio 1995 e siamo solo uomini. Siamo maschi, implotonati in gruppi di cinque, camminiamo stretti in un corridoio di mimetiche sdrucite. Ho paura. Ho dovuto abbandonare la mia famiglia. Sono preoccupato per le mie bimbe. Bimbe... oh, se mi sentissero... mi correggerebbero subito, un po' piccate: "Donne, papà, donne!". Ho paura per loro. Spero abbiano trovato un angolo quieto in cui rifugiarsi, in attesa del mio ritorno.
È l'undici luglio 1995 e i nostri fratelli ci spintonano coi calci dei loro fucili automatici e si sentono, sempre più vicini, spari, rantoli e urla di donne disperate. Non riesco a respirare, sono agitato, improvvisamente mi sono venuti crampi fortissimi alla pancia, ho la gola arsa e tremo.
Tremo di paura.
Mi fermo un attimo.
Mi giro indietro.
Vedo la base dell'Onu, vicina, dietro di noi.
Vedo la mia vita, dietro di me.
Odoro pericolo.
Annuso sciagura.
Mi volto nuovamente in avanti...
È l'undici luglio 1995 e mi volto nuovamente in avanti...e la prima e l'ultima cosa che vedo è una belva in mimetica che ha trovato la mia piccola e si è accorta che è diventata donna.
Non sento più nulla.
Sono sordo.
Non ho caldo.
Non sento stanchezza.
Vedo solamente, e non vorrei farlo.
Mi scaglio in avanti, verso la mia piccola, urlando.
Mi si squarcia il cuore. Mi esplode la testa, sotto il tocco feroce del piombo di un kalashnikov.
Cado.
Buio.
È l'undici luglio 1995 e sono morto oggi, guardando l'orrore. Le ultime immagini, quelle che mi hanno straziato l'anima, mi ripassano di continuo davanti agli occhi. Non mi è bastato morire, vedo ancora, anche qui sotto, sepolto da centinaia di altri corpi, di altri padri, di altri fratelli, di altri mariti, di altri figli. Alcuni li conosco, altri no, ma al fondo di una fossa imputridisce il nostro destino comune.
Risoluzione 819, risoluzione 824, risoluzione 836 e nessuno fece nulla.
Siamo morti, siamo sconosciuti, siamo i puntini di sospensione dopo 8.372...
Siamo gli zeri che definiscono l'abiezione della parola "genocidio".

Giuseppe Modica